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Il significato dell’amore spiegato da Dante e da Benedetto XVI

 Roberto Benigni commenta la Divina Commedia: il si della Madonna

“Dio ha aspettato, fremendo come un innamorato, che la Madonna gli dicesse sì… e noi tutti adesso siamo qui per il sì di una donna”. Queste cose non le dice più nessuno, nemmeno i preti. Siamo dunque grati a Roberto Benigni di averle dette ad alta voce, davanti a milioni di persone, alcuni anni fa su Rai uno. Dopo avere parlato della Madonna, della dignità infinita di ogni essere umano, della sua unicità e della sua libertà di dire di no a Dio, Benigni ha tenuto una piccola lezione di “educazione sentimentale” diretta specialmente ai giovani. Questi ultimi, secondo Benigni, “devono imparare a vivere le loro emozioni, non devono fuggirle, anestetizzarle con la droga”. Ma nella sua piccola “lezione” c’era qualcosa che non andava o, meglio, qualcosa che mancava. In sostanza, Benigni ha contrapposto l’amore alla legge morale, presentando i personaggi danteschi di Paolo e Francesca quasi come eroi dell’amore in lotta contro la legge morale. Dopo avere ascoltato le parole di Francesca, Dante cade come “corpo morto cade” (Inf, V, v. 142). Dice Benigni: “Dante sviene perché sente che non capisce, sente che questa è la legge, e Dante dice che si deve reggere alle passioni umane, però è come se dicesse: gettatevi nel vuoto e allargate le ali mentre state precipitando. Sant’Agostino stesso ha lasciato scritto: Signore dammi castità e continenza; ma non subito”. Questo mancava nella lezione di Benigni: la comprensione della natura della legge morale. Che non è una legge senza amore che si erge contro l’amore, ma è la legge dell’amore perfetto che si erge contro l’amore parziale.

 La cultura medievale vedeva nell’eros (l’amore sessuale) una forza capace di elevare l’animo fino al divino; la cultura moderna invece divinizza l’eros, lo idolatra. Quel vasto movimento culturale che va sotto il nome di Romanticismo ha opposto al razionalismo esasperato dell’Illuminismo l’esasperazione dei sentimenti. Dal punto di vista cristiano il sentimento deve essere immaginato “come una lente: l’oggetto da questa lente viene convogliato più vicino all’energia conoscitiva dell’uomo; la ragione lo può conoscere più facilmente e più sicuramente” (Luigi Giussani, Il senso religioso). Invece l’Illuminismo e il Romanticismo, che poi sono due facce della stessa medaglia, intendono i sentimenti come bende davanti agli occhi della ragione. Accecato dalle passioni, l’uomo romantico non vuole sentire ragioni di nessun tipo, specialmente ragioni morali. La Modernità post-illuminista e post-romantica calunnia la legge morale col nome di “convenzione sociale” e la rimpiazza con un unico comandamento: “Al cuor non si comanda”. Oggi la gente non prende davvero ordini da nessuno tranne che dal “cuore”, questo “muscoletto elastico” (Woody Allen) le cui elastiche e volubili ragioni la ragione non intende. E così per ordine del “cuore” si sfasciano le famiglie, si divorzia, ci si risposa, si divorzia di nuovo per fare i ragazzini ai primi turbamenti amorosi fino a cinquanta, a sessanta, a settanta anni. Ragazzini con la faccia tumefatta dal botulino e dal bisturi. E mentre le coppie si fanno e si disfano al vento dei sentimenti, i figli se ne stanno in un angolo a soffrire. “Ma se soffrono lasciali soffrire” – dicono i sapienti di questo mondo – “tanto prima o poi capiranno che è meglio per tutti se la mamma e il papà divorziano, impareranno ad amare il nuovo fidanzato di mamma e la nuova fidanzata di papà, scopriranno che le famiglie allargate sono più divertenti delle famiglie tradizionali” Come ha scritto una volta Filippo Facci nella sua rubrica di Grazia: “L’importante non è amare la stessa persona per tutta la vita, ma amare per tutta la vita”. E così “tutti dicono I love you” come nell’omonimo film di Woody Allen, manifesto cinematografico di questo relativismo amoroso ossia nichilismo sentimentale. Nichilismo è disprezzare la persona cui fino al giorno prima si era detto “ti amo” e buttarla via, come un oggetto usato, nella pattumiera del divorzio.

 L’effetto principale di questa cultura sentimentale-nichilista di massa è il consumo esponenziale di massa della pornografia. L’idolatria dell’amore si porta dietro l’idolatria del sesso. Se al cuor non si comanda, tanto meno si può comandare qualcosa agli ormoni. Messo al centro della vita come un dio, l’amore perde tutto quello che aveva di veramente divino e diviene mera passione sessuale. Poi va via pure la passione e rimane solo il sesso. Nella vita come nell’arte, il sesso diventa un vizio che impoverisce il cuore. Nota il professore George Steiner, dell’università di Cambridge: “Non c’è sentimento dell’animo umano che autori come Dante, Shakespeare e Goethe non abbiano provato a cogliere, o almeno ad annusare. Invece gli scrittori odierni paiono ossessionati dall’erotismo. Sintomo non di libertà, ma di costrizione. Le due massime industrie dell’Occidente, in termini di circolazione di denaro, sono la pornografia e la droga. Non credo che si possa andare avanti così” (Repubblica 29\95). Nel libro dal titolo Pornified. How pornography is transforming Our Lives, Our Relationship and Our families, l’americana Pamela Paul mostra come la pornografia, divenuta ormai bene di largo consumo, tia modificando sensibilmente in peggio la relazione fra uomini e donne nella società contemporanea. Nel libro Ho dodici anni, faccio la cubista, mi chiamo principessa, Marida Lombardo parla di dodicenni, a volte undicenni, che trovano del tutto naturale regalare la loro verginità ad un moroso di parecchi anni più grande “per amore”. E lui come “prova d’amore” chiede e ottiene quasi sempre dalla ragazzina il permesso di filmare i loro momenti di intimità sessuale. Naturalmente, i filmati finiscono tutti in rete, con grave danno delle ragazzine. Insomma, oggi l’amore rimane solo come condimento emozionale e giustificazione morale del sesso. Che per naturale decorso, diventa sempre più sporcaccione. E se lo chiami sporcaccione ti danno dell’antiquato. Se invece osi nominare le parole “peccato” e “lussuria”, tutti a ridere.

 Ai tempi di Dante le parole peccato e lussuria non facevano ridere nessuno. Se i romantici presentano Paolo e Francesca quasi cme degli eroi dell’amore, invece Dante li presenta molto semplicemente come dei peccatori che stanno all’inferno. Dice Francesca: “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, \ prese costui de la bella persona \ che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende” (Inf, V, vv. 100-102). Questi versi parlano di un amore che si arresta in maniera offensiva (“e ‘l modo ancor m’offende”) su un bel corpo (“bella persona”) che, come tutti i corpi mortali, è solo una apparenza effimera, destinata ad essere tolta di mezzo (“mi fu tolta”) dalla morte, sia essa violenta (come nel caso di Francesca) o naturale. “Amor, ch’a nullo amato amar perdona mi prese del costui piacer si forte, \ che, come vedi, ancor non m’abbandona. \ Amor condusse noi ad una morte” (vv. 103-106). Questi versi parlano di una passione violenta (“forte”) per un la bellezza terrena di lui (“costui piacer”) che, assorbendo tutto il desiderio, distogliendolo dall’eterno, non può che proseguire (“ancor non m’abbandona”) in una morte eterna (“Amor condusse noi ad una morte”) che prende la forma di una tempesta infernale.

 Dice Dante a Francesca: “Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, \ a che e come concedette amore \ che conosceste i dubbiosi disiri?”. Secondo l’interpretazione corrente, i desideri in questione sarebbero “dubbiosi” in quanto non ancora ben chiari alla coscienza, oppure perché ancora incerti di essere corrisposti. Con estrema presunzione, io azzardo una diversa interpretazione. I “dolci sospiri” rappresentano l’aspetto più spirituale, non spiritualista, mentre i “dubbiosi disiri” rappresentano l’aspetto sensuale dell’innamoramento. Questi turbamenti sensuali sarebbero “dubbiosi” in senso morale, ambigui, esposti al rischio del peccato. Il peccato, tutte le sue forme, è un uso distorto delle cose finalizzato al proprio piacere immediato. Il peccato di lussuria è appunto un uso edonistico dell’altra persona, un abbandono all’immediatezza del desiderio al di fuori di un perfetto contesto d’amore, che innanzitutto è il contesto del matrimonio.

   Alla domanda di Dante, Francesca risponde così: “Noi leggiavamo un giorno per diletto \ di Lancialotto come amor lo strinse (…) Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: \ quel giorno più non vi leggemmo avante” (vv. 127 – 138). Un romanzo del ciclo arturiano spinge, come “galeotto”, i due amanti a cedere alla tentazione. Sono invece una chiara allusione alla letteratura stilnovistica i due celebri versi “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende” (che si insinua subito nel cuore nobile) e “Amor, ch’a nullo amato amar perdona” (che costringe l’amato a corrispondere all’amore). Insomma, sembrerebbe che Dante stia facendo un processo alla letteratura amorosa. Alla fine del canto sviene forse perché si sente responsabile in prima persona, come cantore stilnovista, del peccato dei due amanti. Sviene perché è consapevole della minima distanza che c’è fra l’amore inteso come introduzione al Divino e l’amore divinizzato che porta al sesso divinizzato, cioè all’idolatria. Quell’ “Amor” ripetuto tre volte al principio del versi 100, 103 e 106 può diventare un idolo che oscura “L’amor che move il sole e l’altre stelle” (Par, XXXIII, v. 145).

 “Oh lasso, \ quanti dolci pensier, quanto disio \ menò costoro al doloroso passo” (vv. 112-114). Il desiderio amoroso eleva l’animo molto in alto, talmente in alto che basta una distrazione per perdere l’equilibrio e precipitare nella sensualità chiusa in se stessa. Quanto più elevato il punto da cui si precipita, tanto più “doloroso” il tonfo della caduta. L’amore eros è una scala ripida fra l’istinto animale senza amore e l’amore divino, fra l’inferno e il cielo. Facile scendere un po’ alla volta, e poi sempre più speditamente, verso il basso Faticoso è invece cercare di salire un gradino alla volta verso l’alto, verso Colui la cui bellezza infinita ci appare per qualche istante attraverso la bellezza finita dei volti amati. Qualcuno ha detto che le scale dell’inferno si possono solo scendere e mai salire. Ma adesso, nel tempo della vita, si può cadere in basso, e sempre più in basso, fin dentro l’inferno degli istinti più bestiali, e sperare ogni momento di tornare a salire: basta che chiediamo la sua grazia. “Figlia mia, non cessare di annunziare la mia misericordia, facendo questo darai refrigerio al mio cuore consumato da fiamme di compassione per i peccatori. Quanto dolorosamente mi ferisce la mancanza di fiducia nella mia bontà!” (Parole di Gesù a suor Faustina Kowalska).

  Scrive Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est: “Sì, l’eros vuole sollevarci ‘in estasi’ verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni” (p. 16). Purificare l’eros significa completarlo con l’agape. Dove l’eros è l’amore che tende al possesso dell’altro, l’agape è l’amore che si realizza come sacrificio per il bene dell’altro. “Anche se l’eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente – fascinazione per la grande promessa di felicità – nell’avvicinarsi poi all’altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell’altro, si preoccuperà sempre più di lui, si donerà e desidererà ‘esserci per’ l’altro. Così il momento dell’agape si inserisce in esso; altrimenti l’eros decade e perde anche la sua stessa natura. D’altra parte, l’uomo non può neanche vivere esclusivamente nell’amore oblativo, discendente. Non può sempre e soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono”. Per diventare sorgente di acqua viva, deve bere continuamente “a quella prima, originaria, sorgente che è Gesù Cristo, dal cui cuore trafitto scaturisce l’amore di Dio” (Deus caritas est, pp. 20-21). Purificare l’eros, completarlo con l’agape, non significa affatto togliere all’amore ogni aspetto carnale: “L’uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità; la sfida dell’eros può dirsi veramente superata, quando questa unificazione è riuscita” (pp. 14 – 15). A Dio sta talmente a cuore la carne dell’uomo, che ha rivestito di carne anche suo figlio. L’amore stesso di Dio per la sua creatura è non soltanto perfetta agape ma anche totalmente eros: un amore che i profeti dell’Antico Testamento paragonano talvolta a quello di un amante geloso. “Da ciò possiamo comprendere che la ricezione del Cantico dei Cantici nel canone della Sacra Scrittura sia stata spiegata ben presto nel senso che quei canti d’amore descrivono, in fondo, il rapporto di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio” (pp. 26-27). Non c’è nulla di gratuito nella maniera in cui Bernini rappresenta l’estasi di santa Teresa d’Avila. Che cosa è infatti quell’ebbrezza amorosa che lega l’uomo alla donna, se non il riflesso infinitesimo dell’ebbrezza infinita che lega i beati del cielo a Dio? E tutte le bellezze che contiene il cielo e la terra, che cosa sono se non segni del Creatore? Scrive sant’Agostino: “Che cosa amo quando amo Te? Non la bellezza corporea né la leggiadria dell’età, non il fulgore della luce, così caro a questi occhi, non dolci melodie di canti svariati, non la fragranza dei fiori, dei profumi, degli aromi; non manne, non mieli, non membra care agli amplessi della carne: non sono queste le cose che amo quando amo il mio Dio. Eppure amo in certo senso la luce, il suono, il profumo, il cibo, l’amplesso quando amo il mio Dio, luce, profumo, cibo, amplesso del mio uomo interiore; dove rifulge all’anima mia una luce che non ha limiti di spazio, un suono che non svanisce nel tempo, un profumo che il vento non disperde, un gusto che la voracità non nausea, un amplesso che la sazietà non scioglie. Tutto questo amo quando amo il mio Dio” (Santo Agostino, Confessioni, X, 6, 8).

 L’eros ha bisogno della legge morale. Scrive Dante: “Esce di mano a Lui, che la vagheggia \ Prima che sia, a guisa di fanciulla \ Che piangendo e ridendo pargoleggia, \ L’anima semplicetta che sa nulla, \ Salvo che, mossa da lieto Fattore, \ Volentier torna a ciò che la trastulla. \ Di picciol bene in pria sente sapore; \ Quivi s’inganna, e dietro ad esso corre, \ se guida o fren non torce suo amore. \ Onde convenne legge per fren porre” (Purgatorio, XVI, vv. 85 – 94). I beni creati, che non possono soddisfarla, attraggono l’anima, portandola fuori dalla traiettoria che la riporta al “lieto Fattore”. Il “freno” della legge serve appunto a farla restare dentro questa traiettoria. I beni creati sono buoni, cattivo può essere l’uso che se ne fa. E’ bene trattarli come anticipazioni del sommo Bene, è male trattarli come beni ultimi ossia idolatrarli. La caratteristica degli idoli è che non danno mai quello che promettono. Trasgredire la legge morale per godere in maniera immediata di un bene creato è, prima che un peccato, una fregatura, perché nessun bene creato può soddisfare pienamente il desiderio. La legge morale non è una “convenzione sociale” ma è la legge dell’amore stabilita da Colui che è Amore. Nessun amore umano, per quanto sublime, può giustificare la trasgressione della legge dell’Amore. L’adulterio non è mai giusto, neppure in un caso come quello di Francesca, presa in moglie con l’inganno dal fratello di Paolo. Ella non avrebbe dovuto sopprimere il desiderio che provava per Paolo ma, al contrario, andare al fondo di esso.  Perché al fondo di quello, come di ogni desiderio finito, c’è il desiderio dell’infinito. E allora avrebbe potuto accettare la sua condizione come una strada per quell’infinito intravisto. Analogamente, la monaca di Monza non aveva il diritto di venire meno ai suoi voti anche se i voti li aveva presi senza convinzione, solo per vigliaccheria, per l’incapacità di ribellarsi alla volontà del padre. Scrive Manzoni nei Promessi Sposi: la religione cristiana “insegna a continuare con sapienza ciò che è stato intrapreso per leggerezza; piega l’animo ad abbracciar con propensione ciò che è stato imposto dalla prepotenza, e dà a una scelta che fu temeraria, ma che è irrevocabile, tutta la santità, tutta la saviezza, diciamolo pure francamente, tutte le gioie della vocazione. E’ una strada così fatta che, da qualunque laberinto, da qualunque precipizio, l’uomo capiti ad essa, e vi faccia un passo, può d’allora in poi camminare con sicurezza e di buona voglia, e arrivare lietamente a un lieto fine. Con questo mezzo, Gertrude avrebbe potuto essere una monaca santa e contenta, comunque lo fosse diventa. Ma l’infelice si dibatteva invece sotto il giogo, e così ne sentiva più forte il peso e le scosse”.

Giovanna Jacob

Questo articolo è stato pubblicato sull’ultimo numero di Pepe:

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