Tesori in frantumi

Una voce dall'abisso

Archivio per la categoria “PEPE”

Il Carnevale, ovvero l’elogio della follia cristiana

  • Prima del Romanticismo, è stato il Cattolicesimo a valorizzare la sfera a-razionale, la fantasia… e anche la follia.

Il sogno del “dittatore giusto” è sbagliato

Libertà, democrazia e laicità sono valori cristiani. Dal momento che in Russia non ci sono abbastanza libertà, democrazia e laicità, un cristiano per principio non può preferire la Russia agli Usa. [Seconda puntata del dibattito su… la Russia]

http://www.pepeonline.it/index.php/component/k2/item/200-il-sogno-del-dittatore-giusto-e-sbagliato

Einstein aveva torto: Dio gioca a dadi

L’esistenza del caso non contraddice l’onnipotenza di Dio, ma, anzi, è il modo in cui Dio può creare un universo autonomo, in cui sia possibile la libertà umana.

Pubblicato su Pepe:

http://www.pepeonline.it/index.php/component/k2/item/173-einstein-aveva-torto-dio-gioca-a-dadi

GIARDIELLO & C. SI SPIEGANO SOLO COL PECCATO ORIGINALE

Mio articolo appena apparso su Pepe:

http://www.pepeonline.it/index.php/component/k2/item/153-giardello-c-si-spiegano-solo-con-il-peccato-originale

Madonna e l’eterna giovinezza

Finalmente è apparso il nuovo sito di Pepe. Ne approfitto per linkare il mio artcolo su Madonna la cantante e la morte. Ci credereste che la chirirgia estetica, di cui la nostra amata cantante abusa sistematicamente, è una prova indiretta dell’immortalità dell’anima?

Se la morte è la cosa più naturale, da dove viene il desiderio di non morire? Come l’orrore della morte dice l’anima immortale, così l’orrore della vecchiaia parla della resurrezione.

http://www.pepeonline.it/index.php/component/k2/item/134-madonna-e-l-eterna-giovinezza

SIA CATTO-PROGRESSISTI CHE CATTO-TRADIZIONALISTI SBAGLIANO, SOLO IL PAPA HA RAGIONE. Riflessioni in margine al recente sinodo.

ATTORNO AL RECENTE SINODO, SI E’ RIACCESO L’ETERNO SCONTRO FRA CATTOLICI PROGRESSISTI E CATTOLICI TRADIZIONALISTI.

ENTRAMBI SBAGLIANO.

LA CHIESA NON E’ NE’ PROGRESSISTA NE’ TRADIZIONALISTA: E’ UN CORPO VIVO CHE CRESCE RIMANENDO SE’ STESSO E RIMANE SE’ STESSO CRESCENDO.

PER L’OCCASIONE, RILANCIO UN ARTICOLO GIA’ APPARSO SU PEPE QUALCHE MESE FA.

Ogni cosa che esiste prima non esisteva e ad un certo punto cesserà di esistere. Fra la sua apparizione e la sua sparizione, diviene incessantemente. Ma se prima c’erano e poi non ci saranno più, le cose sono veramente? I primi filosofi greci cominciarono a filosofare per rispondere proprio a questa domanda. In generale, non riuscirono a comporre in una visione unitaria il concetto di essere e il concetto di divenire: per gli uni esisteva solo l’essere, per gli altri solo il divenire. E nacque così una specie di “controversia” sull’essere e sul divenire, da cui scaturì, come da un Big Bang, l’intero universo del pensiero filosofico occidentale, con le sue mille galassie.

Per tagliare corto, nel tredicesimo secolo san Tommaso d’Aquino, seguendo Aristotele, dimostrò che essere e divenire non erano necessariamente in contraddizione. Nella sua visione l’incessante divenire delle cose (“enti”) coincide con l’incessante passaggio dell’essere delle cose stesse dalla potenza all’atto. Passando dalla potenza all’atto una cosa diventa sempre più pienamente sé stessa. Ad esempio, il seme ha dentro “in potenza” una pianta, così come il monozigote ha dentro “in potenza” l’uomo adulto. Quando il primo diviene pianta e il secondo diviene uomo, il seme e l monozigote passano dalla potenza all’atto. Per comodità, il divenire di una cosa dalla potenza all’atto possiamo chiamarlo “evoluzione”, depurando questa parola da ogni residuo tossico di darwinismo. Se infatti per noi il concetto di evoluzione presuppone un finalismo (in quanto la potenza ha un fine ab origine: diventare atto) invece per Darwin e i darwinisti l’evoluzione è un divenire casuale, insensato e privo di finalità che tuttavia, casualmente e insensatamente, tende ad un fine, che è il costante miglioramento della specie (non mi addentro ulteriormente nella selva dei divertenti paradossi del pensiero darwiniano). Naturalmente, il processo di evoluzione dalla potenza all’atto non esclude deviazioni, passi indietro e anche degenerazioni. Il peccato originale ha precisamene introdotto in ogni cosa che esiste quel processo di degenerazione che culmina nella sparizione finale della cosa stessa. Ma il processo di corruzione degli enti può esistere proprio perché esiste anche il processo contrario di crescita ed evoluzione degli enti stessi. In breve, solo ciò che all’inizio non è corrotto può corrompersi. Una rosa fresca può appassire, una rosa già completamente appassita no. Il nulla è incorruttibile.

Da nostro punto di vista, se non si evolve si muore. Il seme e il monozigote non possono restare sé stessi se non divenendo rispettivamente pianta e uomo. Se, paradossalmente, si cercasse di farli restare quello che sono, si guasterebbero e infine morirebbero (oggi abbiamo potuto verificare, tristemente, che gli embrioni congelati non sopravvivono). Ebbene, anche i fenomeni del pensiero umano sono soggetti alla legge della costante evoluzione intesa come passaggio dalla potenza all’atto. La filosofia, il pensiero scientifico, la tecnologia eccetera se non evolvono, cominciano a guastarsi. Per quanto possa sembrare scandaloso, anche la tradizione cattolica se non evolve degenera. Come la pianta era contenuta intera nel seme, e come l’uomo adulto era contenuto intero nel monozigote, così la tradizione nella sua (infinita) interezza è già contenuta nel seme del Vangelo. La tradizione non aggiunge nulla al Vangelo, semplicemente rende palese di volta in volta ognuna delle infinite (è il caso di dire infinite) implicazioni morali conseguenze pratiche del Vangelo, che spuntano una dopo l’altra, come foglie su un ramo, sotto la luce mutevole e palpitante della storia. Per fare un solo esempio, una bioetica basata del Vangelo è potuta essere elaborata solo nel momento in cui sono nati i problemi della bioetica. Prima dell’introduzione delle tecnologie che permettono la sopravvivenza dei pazienti in coma e delle tecniche della fecondazione assistita e perfino della clonazione, nessuno si poneva neppure il problema della bioetica.

Come la tradizione, anche l’esperienza individuale di fede evolve continuamente, passando dalla potenza atto.  Nella sua concreta esistenza quotidiana, il fedele non finisce mai di capire chi è Cristo, di imparare a fare il cristiano, di crescere. In altri termini, Non finisce mai di essere sorpreso e stupito dal Mistero di Cristo, che nelle circostanze della vita si presenta in forme sempre diverse, spiazzandolo. Gli stessi discepoli non hanno mai “capito tutto” di Cristo una volta per tutte. Infatti, nel Vangelo è ripetuto più volte “credettero in lui”. In sostanza, essi “credettero in lui” dopo avergli già creduto più volte in precedenti occasioni. Evidentemente, non finivano mai di credere, e ogni volta credevano un poco di più.

A causa dei limiti degli uomini che fanno parte della Chiesa, anche la tradizione tende inevitabilmente ad incorporare di volta in volta qualche errore. Ebbene nel processo di evoluzione, la tradizione si purga di volta in volta proprio di questi errori storicamente determinati, che ostacolano l’evoluzione stessa. Fra i tanti errori del passato, si annoverano soprattutto una concezione negativa della donna, che derivava da una tradizione pre-evangelica, pagana e farisaica, e una eccessiva devozione all’istituto monarchico. Purtroppo oggi molti cattolici tradizionalisti sono ancora devoti alla visione sostanzialmente anti-evangelica della donna come “maschio mancato” (“mas occasionatus”) ed “Eva tentatrice” senza senno e senza intelligenza. Costoro devono fare molta fatica a spiegarsi Hildegarda di Bingen ed Edith Stein.

La tradizione non può restare se stessa senza divenire e non può divenire senza restare sé stessa. Ma come i filosofi pre-aristotelici, anche i cattolici hanno qualche difficoltà a conciliare il concetto di essere e quello di divenire. Per quanto riguarda la tradizione, gli uni la intendono come puro essere immutabile mentre gli altri la intendono come puro divenire. Nel concreto, i “progressisti” pensano che la tradizione debba continuamente trasformarsi, non per divenire più sé stessa ma per divenire sempre meno sé stessa e sempre più simile al pensiero del mondo. Per gli altri, invece, la tradizione è data una volta per tutte e non si può aggiungervi nessun corollario e nessuna correzione senza corromperla.

Credo che la fallacia del cattolicesimo progressista sia chiara a tutti, e quindi non mi soffermerò su di essa. Invece vale la pena esaminare l’errore contrario e uguale, che oggi gode di molto prestigio: il tradizionalismo cattolico Per andare subito al sodo, ogni tradizionalismo all’interno della Chiesa infligge al corpo vivo della tradizione delle paralisi non meno devastanti delle insensate convulsioni progressiste. In effetti, atteggiamenti tradizionalisti sono sempre esistiti all’interno della Chiesa. I più famosi tradizionalisti della storia sono stati quanti si pretendevano discepoli fedeli di sant’Agostino. Gilbert K. Chesterton nota che nella filosofia di Platone, cui sant’Agostino faceva riferimento, c’è molta verità e alcuni inevitabili errori (inevitabili per un uomo che non aveva conosciuto la Rivelazione). Illuminato dalla fede, sant’Agostino poté enfatizzare la componente di verità che c’era nella visione di Platone, ma non poté non assorbire anche qualche residuo degli errori stessi di Platone, ad esempio la dottrina delle “idee innate”. Ebbene nei secoli successivi gli agostiniani, rifiutandosi di spingersi oltre il pensiero di Agostino, finirono per ingigantire quei residui di errori platonici contenuti nel pensiero di Agostino. Convinti, con Platone, che l’esperienza dei sensi fosse completamente inaffidabile, gli agostiniani opposero una strenua resistenza allo sviluppo delle scienze sperimentali, ma ne finirono travolti come da un fiume in piena. Analogamente, i discepoli di san Tommaso irrigidirono il metodo di indagine razionale, trasformandolo in un arido razionalismo che non accettava di fermarsi davanti alle porte del mistero: «Il mondo era stato invaso da centinaia di volumi che dimostravano a rigor di logica una miriade di cose note soltanto a Dio» (J. K. Chesterton, San Tommaso d’Aquino, Lindau, pp. 193-194). Nel sedicesimo secolo, questa scolastica mummificata non potrà combattere contro l’ultimo, più devastate colpo di coda di un agostinismo mummificato: il luteranesimo. Il monaco agostiniano Martin Lutero esasperò l’enfasi di Agostino sull’impotenza dell’uomo di fronte alla onniscienza di Dio approdando ad un pessimismo radicale di fronte a cui lo stesso Agostino sarebbe inorridito. Da questo pessimismo anti-umano, che svaluta la ragione e la volontà, sarebbe poi scaturito tutto il pensiero moderno: dal cartesianismo all’idealismo, passando attraverso l’empirismo e lo scetticismo. Ma per grazia di Dio, nel ventesimo secolo i migliori intellettuali cattolici troveranno fra le pagine della Summa dell’Aquinate un antidoto potentissimo ai veleni del pensiero moderno. In effetti, si ha il sospetto che Tommaso abbia detto tutto quello che una mente umana illuminata dalla fede possa dire, e che a noi discendenti non resti che guardare a lui. Ma anche guardando a lui non dobbiamo cessare di procedere oltre, perché se blocchiamo il processo di evoluzione lo stesso metodo tomista tornerà a guastarsi.

Oltre ad evolvere costantemente, la tradizione è molto complessa. Fra i tanti limiti dell’uomo, c’è anche la tendenza psicologica a non accettare la complessità irriducibile delle singole cose e della realtà intera, a trascurare la totalità dei fattori della realtà per enfatizzare solo quegli aspetti che interessano maggiormente. Questa tendenza, individuale e collettiva, è alla radice della nascita e dello sviluppo delle ideologie moderniste, che sono precisamente sistemi di pensiero che cercano di spiegare o, per così dire, “misurare” la realtà intera usando come “metro” un solo aspetto della realtà medesima. Ad esempio, il marxismo spiega tutta la storia umana attraverso l’economia (che è un po’ come cercare di spiegare ogni aspetto della vita dell’uomo col funzionamento suo apparato digerente). Anche se non siamo adepti delle ideologie, anche se siamo cattolici, anche se non ce ne accorgiamo, tutti abbiamo la tendenza a ragionare in termini ideologici.

Per quanto riguarda la tradizione e la dottrina cattolica, ciascuno di noi tende ad enfatizzare alcuni aspetti trascurando o rigettando gli altri. Ad esempio, gli uni prediligono le conseguenze pragmatiche della carità, gli altri prediligono gli aspetti contemplativi e intellettuali della fede. I primi rischiano costantemente di ridurre il cristianesimo ad un attivismo sociale con coloriture socialistiche, mentre i secondi rischiano costantemente di ridurlo ad un atteggiamento soggettivistico e ad un fatto di cultura. I due gruppi sono costantemente in lotta fra loro, rinfacciandosi a vicenda i rispettivi errori, le rispettive riduzioni: “Voi siete socialisti” – “E voi siete cristianisti”. Nessuno dei due gruppi capisce che non si combatte una riduzione con la riduzione opposta, che la soluzione alle due opposte riduzioni è la armoniosa unità fra tutti i fattori.

Si è detto che anche la tradizione tende inevitabilmente ad incorporare di volta in volta qualche errore storicamente determinato, da cui tuttavia prima o poi si libera. Ebbene molti di questi “errori” nascono precisamente da eccessive enfatizzazioni di alcuni aspetti della visione di fede a scapito di altri.  Ad esempio, nei primi secoli certi apologeti ponevano troppa enfasi sull’impotenza della mente a penetrare il mistero di Dio, mentre alla fine del Medioevo gli scolastici (non Tommaso) enfatizzarono troppo la ragione a scapito del mistero. I primi consideravano vana non solo ogni filosofia ma anche la teologia, mentre i secondi, come si è accennato, pretendevano di misurare razionalmente anche le cose note solo a Dio. Evidentemente la verità non stava in nessuno dei due eccessi contrari ma nel mezzo: la ragione umana può capire molto di quello che sta in “cielo” e quindi è suo dovere sforzarsi di capirlo, tuttavia non può capire tutto e quindi, ad un certo punto, deve arrestarsi.

Quando un determinato errore inizia a consolidarsi, di solito succede che arriva un “rivoluzionario” che cancella quell’errore e fa evolvere di un passo la tradizione portando “in atto” un aspetto che prima era “in potenza” (noto fra parentesi quanto è diverso il rivoluzionario cattolico dal rivoluzionario modernista: se il secondo distrugge tutto quanto è tradizione, il primo invece la rafforza). E succede anche che il rivoluzionario sia duramente avversato da quanti sono troppo attaccati a quell’errore e da quanti non tollerano che la tradizione possa evolvere, i tradizionalisti appunto. Ad esempio, per rimediare agli errori di un agostinismo sclerotizzato, lo Spirito suscitò san Tommaso. Appoggiandosi ad Aristotele, che nell’antica Grecia aveva superato gli errori di Platone, Tommaso superò gli errori platonici degli agostiniani, ristabilendo il rapporto vitale fra sensi e ragione. Se inoltre gli agostiniani, isolando certe affermazioni di Agostino dal loro contesto, puntavano i riflettori sulla corruzione della natura causata dal Primo Peccato, Tommaso invece preferiva puntare i suoi riflettori sull’originaria e sostanziale bontà della Creazione, che il Peccato Originale non aveva potuto corrompere del tutto. Insistendo sul rapporto fra Creazione e Creatore, Tommaso da una parte poté arginare efficacemente l’espansione epidemica della eresia catara, che disprezzava la Creazione, e dall’altra incoraggiò lo sviluppo delle scienze sperimentali, che proprio ai suoi tempi muovevano i primi passi.

Ma Tommaso non fu l’unico rivoluzionario del suo secolo. Mentre Tommaso combatteva contro gli agostiniani, alcuni monaci uscivano dai conventi e incontravano i laici nella vita quotidiana, divenendo frati. Noi oggi fatichiamo a capire quale scandalo potesse suscitare a quei tempi un monaco che usciva dal monastero e si mescolava ai mendicanti divenendo egli stesso “mendicante” (si parla infatti di “ordini mendicanti”). Sembra incredibile, eppure il placido Dottore Angelico e i miti fraticelli di san Domenico e di san Francesco apparvero ai tradizionalisti del tredicesimo secolo come dei pericolosi sovversivi, tesi a distruggere non solo l’ordine sociale ma anche la tradizione. In realtà, la fecero maturare. Infatti, sia il razionalismo di Tommaso sia lo spirito missionario dei frati erano contenuti fin dall’inizio nel Vangelo. Cristo e i suoi discepoli uscivano infatti per le strade ad incontrare la gente, come i frati. E Cristo valorizzava l’esperienza dei sensi, ridando la vista ai ciechi, e cercava di sollecitare l’uso della ragione, raccontando parabole ai suoi ascoltatori.

Anche nella storia recente, come nei secoli passati, si sono succeduti errori e parzialità nel percorso evolutivo della tradizione. In breve, negli anni Sessanta e Settanta i catto-progressisti, forzando alcune affermazioni del Concilio Vaticano II, cercano distruggere la tradizione per adeguarla alle ideologie dominanti, in particolare al marxismo, favorendo la nascita di semi-eresie come la teologia della liberazione. Per rimediare ai loro errori e fare “ordine”, arrivano prima Giovanni Paolo II e poi soprattutto Benedetto XVI. Quest’ultimo in particolare si è dedicato con scrupolo di vecchio professore a ristabilire alcune eterne verità. Contro la riduzione dell’amore ad un sentimento acritico, buono per giustificare ogni peccato (capita ancora di incontrare cattolici che non trovano molto di sbagliato nel matrimonio omosessuale in quanto, a loro dire, “l’importante è l’amore”), Benedetto XVI ribadisce che l’amore deve adeguarsi alla legge naturale. Contro la fede ridotta in maniera protestante a mero sentimento, Benedetto XVI rimette la ragione alla base della fede. Contro la riduzione della carità ad un mero pragmatismo sociale, che finisce per fondersi e confondersi col welfare statale basato sulla “ridistribuzione della ricchezza” (che Antonio Rosmini interpretava come una mostruosa “carità coatta”), Benedetto XVI ribadisce che la carità non è un pragmatismo ma è una virtù teologale da cui scaturisce anche, come conseguenza, un “pragmatismo”, che in ogni caso non deve mai confondersi con la “carità coatta” del welfare.

Dunque Benedetto XVI assesta un duro colpo ai catto-progressisti. Esultando per la sconfitta degli eterni avversari, i tradizionalisti alzano la testa: “Il papa ha dato ragione a noi! Ha liquidato l’eredità satanica del Concilio Vaticano II!”. In realtà Benedetto XVI non ha rimosso un errore per esaltare l’errore opposto. Nello specifico, non ha liquidato il Concilio Vaticano II ma lo ha semplicemente ripulito dalle cattive interpretazioni progressiste. Nota a questo proposito Massimo Introvigne che negli ambienti tradizionalisti «si credette che il Papa autorizzasse ad accogliere, del Vaticano II, solo quanto avesse presentato in modo nuovo (“nove”) quanto era già stato insegnato prima, rifiutando invece quanto era in effetti «novum», nuovo, non – secondo Benedetto XVI – in contraddizione con il Magistero precedente ma certo non riducibile a questo. Non era così. Questa “destra” interpretò il discorso di commiato di Papa Ratzinger ai parroci romani del 14 febbraio 2013 come un’ammissione che l’ermeneutica della riforma nella continuità era fallita. Mentre quello che era fallito era il tentativo di usare Benedetto XVI per rifiutare il Concilio» (Massimo Introvigne, “Capisco il disagio ma nella chiesa o si cammina con il Papa o si va verso lo scisma”, Il Foglio, 11 ottobre 2013).

Ora che i progressisti sono stati “puniti”, resta da “punire” i tradizionalisti, che tuttora, nonostante la lezione impartita loro da Ratzinger, si ostinano ad aborrire non soltanto l’ultimo concilio ma la modernità tutta, sognando altari incollati ai troni e donne segregate in casa. E a quel punto è arrivato dall’altra parte del mondo Francesco I, che non a caso appare immediatamente come “Anticristo” a tradizionalisti e affini. Il loro odio verso papa Bergoglio è pari soltanto alla risolutezza con cui papa Bergoglio mette la tradizione al riparo dal tradizionalismo, riaffermando la validità del Concilio Vaticano II: «Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi» (Antonio Spadaro, “La Chiesa, l’uomo, le sue ferite: l’intervista a Papa Francesco”, Civiltà Cattolica, 19 settembre 2013).

Inoltre, fra gli ultimi due papi c’è un vero e proprio rapporto di complementarietà. Se il secondo poneva l’accento sulla legge naturale, invece il primo poneva l’accento sulla misericordia divina. Secondo consolidati luoghi comuni mondani, la misericordia annullerebbe la necessità di rispettare la legge ossia di non commettere peccato. In realtà, la misericordia non annulla il concetto di peccato né ne sminuisce la gravità. Nello stesso momento in cui esalta la misericordia, Bergoglio invita insistentemente i fedeli ad avvicinarsi al sacramento della confessione. Insomma, papa Francesco tanto lontano dalla cupezza tradizionalista quanto dal buonismo progressista.

Se Benedetto XVI aveva stabilito che la carità non ha niente a che fare con il welfare statale, Bergoglio puntualizza che comunque dalla carità devono scaturire delle concrete azioni, che non possono non avere anche una portata sociale. Sicuramente Bergoglio sembra condizionato da qualche pregiudizio marxista di troppo, che lo porta a credere seriamente che i paesi ricchi sfrutterebbero i paesi poveri (ma purtroppo qui non c’è spazio per spiegare le cose come stanno). Ma per quanto siano infondati e deleteri questi pregiudizi (che in ogni caso appartengono all’uomo Bergoglio, non al Pontefice Francesco), Papa Bergoglio non contraddice minimamente l’insegnamento di Cristo quando ci invita a soccorrere attivamente gli stranieri che mettono a repentaglio la vita pure di raggiungere le nostre coste.

Papa Francesco è un papa molto poco “formale”: non solo preferisce abitare in un modesto convento invece che nei sacri palazzi, ma si lascia volentieri sfuggire di bocca espressioni prosaiche come “buongiorno”, “buonasera” e perfino “buon pranzo”. Gira voce che qualche notte vada in giro per Roma vestito da semplice prete a incontrare i barboni. Molti osservatori trovano inammissibile che un Papa si mostri così “alla mano”: “Bergoglio ha tolto ogni sacralità alla figura del Papa!”. Lascio ad altri di discutere sul concetto di sacralità pontificia. Noto soltanto che oggi papa Francesco mostra di avere lo stesso spirito anti-conformista che avevano i frati francescani e domenicani nel tredicesimo secolo. Come questi ultimi uscivano dai conventi per incontrare i laici, così Bergoglio “esce” dai sacri palazzi e cerca un rapporto diretto, quasi colloquiale, con i fedeli. Insomma, Bergoglio ha qualcosa dei grandi “rivoluzionari” del passato.

In conclusione, fra papa Benedetto XVI e Francesco I c’è una profonda continuità. C’è anche lo stesso rapporto di complementarietà che nel tredicesimo secolo c’era fra san Tommaso, il santo dell’intelletto, e san Francesco, il santo dell’amore. D’altra parte, esaminando la sua biografia si scopre che Tommaso, frate domenicano, aveva molto in comune con Francesco d’Assisi: non solo stimava l’umiltà, soprattutto quella intellettuale, come la suprema virtù, ma aveva una predilezione assoluta per i poveri e gli ultimi (fin da bambino aveva maturato l’abitudine, invisa ai ricchi genitori, di dare tutto quello che aveva con sé ai mendicanti che incontrava per strada). Evidentemente, nel cristiano l’amore per il puro ragionamento non solo non esclude ma nutre l’amore per il prossimo. Nel nostro secolo, Ratzinger è venuto a ricordarci che l’amore ha bisogno della ragione per non corrompersi in un sentimentalismo che è pretesto di ogni delitto, Bergoglio è venuto a ricordarci che la ragione senza l’amore inaridisce. San Tommaso argomentava: il lavoro manuale serve a nutrire il corpo affinché la mente possa dedicarsi alle attività intellettuali, le attività intellettuali servono ad avvicinare l’anima all’amore di Dio. Quando l’amore di Dio viene direttamente sperimentato, le attività intellettuali cessano. Poco prima di morire san Tommaso disse della sua immensa opera: «Sicut palea mihi videtur» (“Mi sembra paglia”).

IL PECCATO? UN PIACERE BLOCCATO.

Articolo apparso sul numero di Pepe uscito in marzo: 

PECCATO

Una volta il peccato in tutte le sue forme appariva scandaloso (“dare scandalo” significa letteralmente esibire in pubblico determinati peccati, in primo luogo quelli di carattere sessuale). Invece oggi è il concetto stesso di “peccato” a suscitare scandalo. La cultura contemporanea ammette il concetto di reato ma non quello di peccato. La differenza fondamentale fra reato e peccato, è che il primo è allo stesso tempo immorale e contrario alle norme del contratto sociale, mentre il secondo è immorale ma non contrario a tali norme. Nel concreto, uccidere e rubare sono allo stesso tempo peccati e reati, mentre commettere atti di lussuria e abbandonarsi all’iracondia sono solo peccati. Ebbene, per la cultura contemporanea nulla può essere considerato peccato in quanto nulla, a parte i reati, può essere vietato all’uomo. Sembra proprio che oggi si ammetta il termine “peccato” solo come sinonimo di piacere e perfino di bellezza. Ad esempio, nel linguaggio pubblicitario le espressioni “peccati della gola” e “peccati della carne” hanno tutto fuorché una connotazione negativa. Per quanto riguarda l’arte, oggi l’aggettivo “scandalosa” riferito ad un’opera d’arte (cinematografica, letteraria, teatrale eccetera) è quasi sempre sinonimo di “bella”. Evito di fare l’elenco dei film semi-pornografici che hanno entusiasmato critica e pubblico dei festival cinematografici perché sarebbe troppo lungo.

Se la cultura contemporanea associa il concetto di peccato al concetto di piacere, invece una certa cultura cattolica associa il concetto di virtù al concetto di dovere senza piacere ed inoltre separa il concetto di bene dal concetto di bello. Ma siamo seri: chi preferisce il dovere al piacere? E chi preferirebbe una virtù intesa come puro dovere ad un peccato inteso come fonte di piacere?  Quindi, una debole cultura cattolica incentrata su un astratto dovere ha poche possibilità di contrastare efficacemente la diffusione di una cultura edonista, che esalta specialmente i peccati della carne.

La condizione fondamentale per combattere contro la cultura edonista e permissiva è ricomporre la frattura culturale fra etica ed estetica ed anche fra etica ed edonismo. Si tratta infatti di fratture dolorose, che contraddicono la natura profonda dell’essere. A livello spirituale, il bello è l’apparire del bene. Andando più a fondo, Dio è Verità, Bene e Bellezza infiniti. Parallelamente, per quanto possa sembrare scandaloso a certi cattolici, inconsapevolmente impregnati di anti-edonismo puritano, a livello spirituale il bene è intrinsecamente piacevole, dal momento che è orientato al “sommo piacere” (Paradiso XXXIII, 33). In altri termini, la Verità, il Bene e la Bellezza infiniti sono fonte dell’infinito piacere della beatitudine. Scrive a questo proposito Von Balthasar: «La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto». 

Come il bello è l’apparire del bene, così il brutto è l’apparire del male. Contrariamente alle apparenze, nel male non c’è nulla di bello e di piacevole. Peccare non significa semplicemente contraddire una norma astratta ma distruggere qualcosa di bello. E ‘ come appiccare il fuoco un giardino meraviglioso oppure fare a pezzi con l’accetta una grande opera d’arte. Anzi, peccare è come sfregiare il proprio volto, rendersi brutti e ripugnanti. Purtroppo, basta una parola cattiva per rendersi brutti. Per fortuna, basta pentirsi davanti al confessore per tornare belli.

Dunque, a livello spirituale il bene è bello e piacevole mentre il male è brutto e spiacevole. Ma abitiamo nel mondo materiale, non nel cielo dello spirito. Certamente non possiamo accogliere l’idea gnostica e catara che la materia sia intrinsecamente “cattiva” e fonte di ogni male. Per chiarirci, la radice ultima del male è tutt’altro che materiale: il diavolo è puro spirito. Tuttavia, sappiamo che il peccato originale ha prodotto una frattura fra spirito e materia. Pure non essendo intrinsecamente cattiva, la materia in qualche misura offusca, “disturba” – come le interferenze disturbano un segnale radio – la manifestazione del vero, del bene e del bello, che sono realtà spirituali (“universali” nel linguaggio tomista).  Ad esempio, la bellezza di un dipinto antico può essere offuscata dalla sporcizia dei secoli e dal degrado dei materiali. Più prosaicamente, le macchie possono imbruttire irrimediabilmente un bel vestito. Analogamente, anche se conosciamo perfettamente l’unica e immutabile idea di bene, non è mai facile capire che cosa è giusto fare in ogni circostanza materiale, dal momento che ogni circostanza è diversa dall’altra.

Dunque, la materia non ostacola ma comunque offusca in qualche misura l’apparire degli “universali”. Ma consideriamo soltanto l’universale bene. Oltre a non manifestarsi sempre chiaramente in ogni materiale circostanza, il bene non appare sempre come bellezza. Cristo, Dio fatto uomo, non può che essere “il più bello dei figli dell’uomo”. Ma il profeta Isaia ci avverte: «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere» (53,2). Cristo è bellissimo ma la sua bellezza non appare mai in tutto il suo splendore. Durante la Passione, appare addirittura sfigurata. Il corpo di Cristo appare devastato dalle ferite e dai segni delle percosse, le espressioni di sofferenza tolgono grazia al suo viso. La Passione e la Morte di Cristo insegnano che la sofferenza è la condizione misteriosa dell’amore. Non può esserci amore senza sacrificio e non può esserci sacrificio senza dolore. Non ama veramente chi non è pronto a compiere qualche sacrificio per il bene della persona amata. In generale, fare il bene costa sempre una certa quantità di fatica e sacrificio, ora piccola o piccolissima e ora grande. Come dunque il più bello dei figli dell’uomo diventa “simile a verme” durante la Passione (Cfr. Samo 21 22: «Ma io sono un verme e non un uomo, \ rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente. \ Si fanno beffe di me quelli che mi vedono, \ storcono le labbra, scuotono il capo.»), analogamente i comportamenti virtuosi e le opere buone possono apparire poco piacevoli se non del tutto spiacevoli, quando non gravose. Senza dubbio, usare un po’ del proprio tempo libero per soccorrere i bisognosi non è entusiasmante come andare al cinema o allo stadio.

La fatica e il sacrificio sempre inevitabilmente connessi allo sforzo di fare il bene sono condizione non soltanto dell’amore ma anche della libertà. Se il bene apparisse sempre bello, se in altri termini fare le opere buone fosse sempre piacevole, tutti aderirebbero sempre irresistibilmente al bene e quindi nessuno ne avrebbe il merito. Invece, un atto buono è un atto meritevole proprio perché è difficile.

Dunque il bene può apparire poco attraente, in certi casi addirittura brutto. Simmetricamente, il male può apparire addirittura bello. Ad esempio, la fedeltà coniugale appare meno attraente del libertinaggio, la generosità appare meno seducente dell’avidità. Nel monte del Purgatorio il peccato si presenta a Dante pellegrino nella forma simbolica di una bellissima, seducente sirena. Ma in realtà la sirena è una pura apparenza, quasi una illusione ottica che nasconde una «femmina balba, \ ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, \ con le man monche, e di colore scialba» (Purgatorio, XIX, vv. 7-9).

Peccare significa propriamente cedere alle lusinghe di una “sirena” ossia ad una apparenza di piacere e di bellezza. Il male può rivestirsi di una apparenza di bellezza, ma la bellezza non appartiene al male, è addirittura incompatibile col male. Il diavolo è “scimmia di Dio”: non può produrre un solo briciolo di bene e bello ma soltanto copie ingannevoli e distorte di essi. Per fare un solo esempio, il numero esorbitante di morti causato dal comunismo prova in maniera chiara e incontrovertibile che il concetto marxista di “giustizia sociale” è una imitazione menzognera, distorta, diabolica del vero concetto di giustizia. Per quanto possa apparire scandaloso ai non pochi cattolici divenuti inconsapevolmente puritani, neppure il piacere appartiene al male in quanto tale. Il tentatore può usare il piacere naturale come esca, ma non può produrlo. Il piacere del peccato è un uso distorto e un abuso del piacere naturale in quanto tale. Ad esempio, la lussuria è un abuso del piacere sessuale, che ultimamente è un dono di Dio all’uomo. Per quanto riguarda la lussuria, il tentatore usa come esca non soltanto il piacere ma anche la bellezza dei corpi, che è opera di Dio. Sant’Agostino sottolinea che spesso dietro la lussuria c’è l’amore per la bellezza dei corpi, che come è noto sono ad immagine e somiglianza di Dio. Egli descrive la lussuria come una maniera sbagliata e fallimentare di godere della bellezza dei corpi, che ultimamente allude alla Bellezza assoluta, infinita. Dal momento che dunque quel vizio deplorevole contiene due giusti amori (l’amore per il piacere sessuale e l’amore per la bellezza dei corpi) sant’Agostino si spinge addirittura a tessere un paradossale elogio della lussuria. Senza concedere la benché minima giustificazione al peccato, il santo elogia l’amore che i lussuriosi hanno per la bellezza dei corpi, invitandoli a liberare questo amore dal vizio carnale che lo imprigiona e a dirigerlo al suo vero oggetto, che è la bellezza di Dio. Analogamente, egli tesse un elogio paradossale della superbia, invitando i superbi a liberare il giusto amore di sé stessi dalla prigione della sopravvalutazione di sé stessi.

I sette vizi capitali sono distorsioni ed esasperazioni di giuste inclinazioni e giusti “amori” per le cose. In effetti, alla radice dei vizi c’è l’idolatria. Idolatrare significa aspettarsi la soddisfazione del desiderio di felicità da qualcosa che non è Dio: dal sesso (lussuria) dal denaro (avidità), dai beni materiali e spirituali altrui (invidia), dall’ammirazione altrui (vanità), dai propri successi mondani (superbia) eccetera. Ma appunto, l’idolatria è sbagliata per la semplice ragione che nessun bene o circostanza terrena potrà soddisfare il desiderio di felicità, perché tutti i beni terreni sono finiti, mentre il desiderio dell’uomo è infinito. Il nostro cuore non desidera soltanto questo o quel piacere, ma soprattutto il “sommo piacere” del paradiso. Consapevoli del fatto che i beni terreni sono finiti, non dobbiamo disprezzarli ma piuttosto usarli in funzione dell’infinito. Il sesso, il denaro, il cibo, i successi professionali e tutto il resto sono cose importanti, che dobbiamo gustare come piccole anticipazioni dell’infinito e utilizzare come strumenti di un bene più grande, che è il regno di Dio.

Abbiamo visto che su questa terra, paradossalmente, il bene può apparire brutto e il male può apparire bello. In altri termini, fare il male è nell’immediato (solo nell’immediato) più piacevole che fare il bene. C’è una certa analogia fra il peccare e il drogarsi. La straordinaria eccitazione e le favolose allucinazioni donate dalla droga sono immediate ma effimere: si disperdono in fretta, lasciandoti più infelice e depresso di prima, per tacere delle devastanti conseguenze sulla salute. I piaceri peccaminosi non sono meno effimeri dei piaceri stupefacenti, considerando che gli stessi piaceri stupefacenti sono peccaminosi. Prendiamo ad esempio un uomo stanco della moglie. Una bella amante può donargli nell’immediato tutte le emozioni e i piaceri che la moglie non può più donargli, ma si tratta di emozioni e piaceri che sono necessariamente effimeri. Le amanti “durano” poco: bisogna cambiarle spesso (date un’occhiata alla vicenda del presidente francese Hollande, che ha “tradito” l’amante dopo avere tradito la moglie). Inoltre, i piaceri e le emozioni dell’adulterio non lo rendono più felice, mentre paradossalmente lo sforzo della fedeltà alla lunga può riservare molte piccole gioie, che sono tanti piccoli anticipi dell’infinito. Più precisamente, il peccato di adulterio, per quanto piacevole, lo porta più lontano dal destino ultimo, che è “sommo piacere”, mentre la fedeltà coniugale, anche se sembra del tutto priva di piacere, lo fa avvicinare sempre di più al “sommo piacere”. In sostanza, la strada che porta all’infinita felicità, passa proprio attraverso la “porta stretta” della fedeltà coniugale e, più in generale, della pratica del bene.

Dunque per resistere alla seduzione del male occorre la capacità di riconoscere sempre immediatamente che, al di sotto delle sue seducenti apparenze, il male è brutto, spiacevole, ripugnante. Ma c’è qualcuno che è capace di provare una istintiva ripugnanza del male? Neppure il più integerrimo e fedele uomo sposato riuscirebbe a non sentirsi, suo malgrado, attratto dal peccato di adulterio. E quanto a lungo potrebbe resistere, se fosse tentato ogni giorno, ogni ora, da una donna di eccezionale bellezza? Non solo l’adulterio e la lussuria, ma ogni “vizio capitale” è seducente. Noi possiamo avere mille ottime ragioni per detestare ognuno dei sette vizi capitali, possiamo addirittura scrivere interi trattati contro il peccato, ma non per questo smetteremmo di provare una certa istintiva inclinazione verso uno o più vizi capitali. Questa nostra scarsa capacità di resistere alla seduzione del male ha una causa precisa: il peccato originale. Dal momento che ogni uomo ha dentro la ferita del peccato originale, nessun uomo è capace di non commettere mai peccato. Per quanto sia faticoso da ammettere, noi siamo inevitabilmente peccatori. Ma non dobbiamo disperare: Dio ci offre il suo perdono e ci dona la sua grazia, che ci rende sempre meno incapaci di resistere alla seduzione del peccato.

Come si dice, errare è umano, perseverare è diabolico. In altri termini, cedere di tanto in tanto alla seduzione del peccato è inevitabile e quindi scusabile, cedervi sempre e consapevolmente, per partito preso, è inescusabile. Inoltre, la perseveranza nel peccato genera il vizio, che è una forma di dipendenza dal peccato. C’è una certa analogia fra il vizio e la tossicodipendenza: come il tossicodipendente è alla continua ricerca di “dosi”, così il vizioso cerca sempre affannosamente di rinnovare i piaceri effimeri del peccato. Come la droga crea una dipendenza quasi sempre mortale, così “chi commette peccato è schiavo del peccato”. (Segnalo che nel memorabile film The addiction, diretto da Abel Ferrara, una paradossale tossico-dipendenza vampiresca da sangue, che si trasmette come un virus da persona a persona, diventa metafora del peccato.) Non a caso, Jacques Maritain diceva che la droga è “sacramento di Satana”.

Da un certo punto di vista, possiamo paragonare il peccato all’illusione, dal momento che il piacere del peccato è illusorio. Amare il peccato in quanto tale, sapendolo peccato, è come amare l’illusione sapendola illusione. In una scena significativa del film Matrix (fratelli Wachowski, fantascienza, Usa, 1999) il “traditore” Cypher dice all’agente Smith: «Io so che questa bistecca non esiste, so che quando la infilerò in bocca, Matrix suggerirà al mio cervello che è succosa e deliziosa. Dopo nove anni, sa che cosa ho capito? Che l’ignoranza è un bene». Subito dopo, Cypher (il cui nome allude evidentemente a Lucypher: Lucifero) vende il “messia” Neo (la cui figura allude chiaramente a Cristo) agli agenti di Matrix in cambio della illusione di una vita dorata. Riferimenti evangelici a parte, questa scena pone un quesito interessante: se si tratta di scegliere fra una illusione bella e una realtà brutta, perché non bisognerebbe scegliere l’illusione? Se la nostra vita è grigia, perché non dovremmo drogarci o in alternativa chiuderci per tutta la vita dentro un apparecchio che crea una stupenda realtà virtuale? Su un altro piano, se la pratica del bene è difficile a faticosa, perché non dovremmo preferire il piacere immediato fornito dal peccato? Non è meglio arricchirsi spropositatamente e disonestamente derubando i risparmiatori a Wall Street (in riferimento al film di Martin Scorzese The wolf of Wall Street) piuttosto che vivere onestamente con 2000 euro al mese?

In effetti, a giudicare dallo incremento esponenziale del consumo mondiale del “sacramento di Satana”, al giorno d’oggi molti scelgono l’illusione. Ma l’illusione ha le gambe corte. Per quanto belli e appaganti, i piaceri illusori generati dalla droga o dalla vita dissoluta non ti fanno avvicinare di un centimetro alla vera felicità. Per quanto possa essere dura e spiacevole, è nella realtà che si gioca la partita della felicità. Per “vincerla”, bisogna fare il bene. Ma il Bene, il Vero e il Bello assoluti non sono rimasti in cielo. Dio si è incarnato in Cristo, che entra nella realtà per aiutarci a giocare questa partita.

Come si è detto, paradossalmente in questa terra il bene appare spesso meno seducente del male e la bellezza stessa di Cristo non appare subito in tutto il suo splendore. Ma appunto, si tratta solo di apparenze. A lungo andare, se lo si segue portando la propria croce, la presenza di Cristo, che si manifesta attraverso le persone che compongono la sua Chiesa, appare più attraente di qualunque altra cosa o persona al mondo. Capisci che tutto il mondo anzi tutto l’universo è nulla in confronto a lui e allo stesso tempo ti accorgi che la sua presenza illumina ogni cosa che è nell’universo. In sua compagnia, ogni cosa diventa più interessante. Anche un boccone di carne “succosa e deliziosa”, se lo mangi in sua compagnia è più buono.  

LA CRISI ECONOMICA? E’ SPIRITUALE. Come l’ingiustizia spirituale produce catastrofi materiali spaventose.

Articolo pubblicato su Pepe 27, numero dedicato alla giustizia, uscito in dicembre 2013.

Pepe_27_Giustizia

LA CRISI ECONOMICA? E’ SPIRITUALE

Dal momento che è composto di corpo e spirito, un essere umano può subire sia ingiustizie di carattere fisico sia ingiustizie di carattere spirituale. L’omicidio e il furto, per fare due soli esempi, costituiscono ingiustizie fisiche, mentre la calunnia, la diffamazione e la menzogna costituiscono ingiustizie spirituali. Il corpo è un “mezzo” molto nobile, ma pur sempre un mezzo dello spirito: è il pensiero a muovere il corpo e non il corpo a muovere il pensiero. Dal momento che dunque lo spirito è in qualche maniera superiore al corpo, le ingiustizie spirituali sono molto più lesive delle ingiustizie fisiche. Nessuna massima è dunque più vera di questa: “Ne uccide più la penna che la spada”. Infatti la spada può infliggere solo delle lesioni fisiche, mente la penna può infliggere lesioni spirituali. Se ad esempio un giornalista diffama una persona, attribuendole colpe che non ha, quella persona molto probabilmente perderà tutte le amicizie, soffrendone molto. Una lesione “spirituale” ha quasi sempre anche conseguenze materiali: una persona diffamata a mezzo stampa rischia di perdere il lavoro e di ritrovarsi su una strada, nei casi più gravi può diventare bersaglio di vendette e rappresaglie da parte di quanti si considerano sue vittime.

Adesso vorrei soffermarmi su un tipo particolare di ingiustizia spirituale che oggi è molto diffusa: l’ingiustizia informativa, che consiste nel deformare e occultare la verità dell’informazione storica, economica, filosofica eccetera. Nessuna ingiustizia ha conseguenza più profonde, estese e devastanti delle ingiustizie informative, che sono le più grandi delle ingiustizie spirituali e quindi le più grandi ingiustizie in assoluto. Mi viene in mente un geniale aforisma di Hernest Hello, polemista cattolico del XIX secolo: «Sono i principi che guidano il mondo, senza che il mondo sappia da chi è condotto. La più lieve negazione religiosa si trasforma in catastrofi materiali spaventevoli. Tu neghi il dogma: ti credi nel regno delle teorie senza conseguenze: il sangue scorre. Sarai spaventato dagli effetti; non vedrai le cause». Negando l’immortalità dell’anima, mettendo l’uomo sullo stesso piano degli animali, la cultura atea e positivista ha aperto le porte dei lager e dei gulag

Venendo alla cronaca di questi giorni, la più piccola negazione filosofica ed economica si traduce in catastrofi storiche ed economiche spaventevoli. Il 16 ottobre 2013 sul Imola oggi Roberto Orsi della London School of Economics ha scritto: «dell’Italia non rimarrà nulla, in 10 anni si dissolverà. Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un Paese che è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale in soli vent’anni in una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampate terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico istituzionale. Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato italiano sta crescendo, con i ricavi dalla tassazione diretta diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil maggiore del 3% e un debito pubblico ben al di sopra del 130%. Peggiorerà.  (…) L’Italia ha attualmente il livello di tassazione sulle imprese più alto dell’UE e uno dei più alti al mondo. Questo insieme a un mix fatale di terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente, il sistema di giustizia più lento e inaffidabile d’Europa, sta spingendo tutti gli imprenditori fuori dal Paese. (…) La scomparsa dell’Italia in quanto nazione industriale si riflette anche nel livello senza precedenti di fuga di cervelli con decine di migliaia di giovani ricercatori, scienziati, tecnici che emigrano in Germania, Francia, Gran Bretagna, Scandinavia, così come in Nord America e Asia orientale. (…) L’attuale leadership non ha la capacità, e forse neppure l’intenzione, di salvare il Paese dalla rovina. Sarebbe facile sostenere che Monti ha aggravato la già grave recessione. Letta sta seguendo esattamente lo stesso percorso: tutto deve essere sacrificato in nome della stabilità. (…) A meno di un miracolo, possono volerci secoli per ricostruire l’Italia.»

La dissoluzione prossima ventura dell’Italia è la logica conseguenza di una campagna di ingiustizia informativa portata avanti per più di cinquant’anni dalle élite intellettuali italiane, tutte rigorosamente di sinistra. Impadronitesi di tutte le centrali dell’informazione e dell’istruzione (giornali, televisioni, scuole, università eccetera), queste élite hanno potuto inoculare nella mente della stragrande maggioranza degli italiani le menzogne marxiste e keynesiane. Accecati da queste menzogne, gli italiani hanno sempre votato per i partiti che promuovevano l’aumento incontrollato della spesa pubblica e delle tasse e il saccheggio sistematico delle ricchezze prodotte. Sotto un altro punto di vista, gli italiani hanno sempre votato per i partiti statalisti perché in Italia tutti i partiti sono statalisti. In Italia l’unica scelta possibile è fra partiti molto statalisti e partiti un po’ meno statalisti, che si spacciano per “liberali”. Infatti in Italia, per dirsi “liberali”, ai politici basta promettere a vuoto di abbassare le tasse. Anche se non lo fanno, gli elettori non se ne accorgono e li votano di nuovo. Di recente i sedicenti “liberali” insediati nel “governo delle larghe intese”, autoproclamatisi comicamente “sentinelle anti-tasse”, hanno promesso di abbassare le tasse. Tuttavia, non solo non si sono impegnati a tagliare un  solo euro di spesa pubblica ma l’hanno aumentata a nostra insaputa. Ora, la matematica elementare vieta di tenere insieme l’aumento della spesa pubblica con la diminuzione delle tasse. E’ come se io volessi comprare il doppio di quello che compravo prima spendendo la metà di quello che spendevo prima. E infatti le tasse stanno aumentando a nostra insaputa.

Ecco tutta la storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi in forma di sillogismo: le élite intellettuali hanno indotto gli italiani a votare per i partiti statalisti, i partiti statalisti hanno aumentato la spesa e le tasse, la spesa e le tasse stanno uccidendo l’Italia. La mente degli italiani è talmente obnubilata dalle menzogne, che non riescono neppure a vedere la realtà. Lo Stato li sta uccidendo e loro chiedono più Stato. L’Italia sta per dissolversi bel buco nero del debito e gli italiani chiedono allo Stato di aumentare il debito creando migliaia di posti di lavoro e stampando denaro. Vengono in mente i medici antichi, che non sapevano fare atro che salassi. Ebbene, il popolo italiano è simile ad un malato stremato da infiniti salassi che supplica lo Stato-medico di fargli ancora un altro salasso, ma più forte. E quando sarà in coma irreversibile, nell’ultimo barlume di coscienza prima della morte, stordito dalla morfina, il popolo si sentirà felice e dirà: “La ripresa sta arrivando”.

Come ho detto, questa follia suicida collettiva è stata scatenata dalla visione menzognera della realtà che le élite intellettuali italiane, tutte rigorosamente di sinistra, hanno inoculato nella mente degli italiani. Secondo questa visione, che è un po’ marxista e un po’ keynesiana, ogni crisi economica (con tutti i corollari: disoccupazione, inflazione, stagflazione, crisi del debito sovrano eccetera) sarebbe causata dall’accumulazione della ricchezza da parte dei “ricchi”, in altri termini i “ricchi” (borghesi, capitalisti) si arricchirebbero rubando ai “poveri” (proletari, operai, lavoratori dipendenti, disoccupati eccetera). I giornalisti di sinistra ripetono ogni giorno come un mantra: “Oggi i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri diventano sempre più i poveri”.

Una volta convinto il popolo che i ricchi rubano ai poveri, lo si può convincere ad adorare lo Stato come una divinità. Gli intellettuali di sinistra ripetono come un mantra: “Lo Stato ha il compito di ridistribuire le ricchezze tramite il fisco”. Nel concreto, lo Stato socialdemocratico usa i soldi delle tasse per creare milioni di posti di lavoro pubblici (nella pubblica amministrazione e nelle aziende pubbliche), per finanziare welfare e per donare ai “poveri” ogni sorta di “ammortizzatori sociali”.

Una volta convinto il popolo che il compito dello Stato è di punire i “ricchi” e favorire i “poveri”, lo si può convincere che lo Stato fa bene a sequestrare più del cinquanta per cento del reddito a quanti hanno la sfortuna di non essere del tutto “poveri” e ad incrementare costantemente il debito pubblico. Infatti, oggi tutti i politici di destra e di sinistra, anche le “sentinelle anti-tasse”, credono ad un famoso truffatore di nome John Maynard Keynes, il quale sosteneva impunemente che per fare crescere l’economia lo Stato deve sperperare i soldi dei contribuenti, indebitare i contribuenti non ancora nati e stampare denaro dal nulla.

Quando il debito pubblico è scoppiato come un ordigno nucleare, gli intellettuali si sono trovati in seria difficoltà. Come potevano continuare a fare credere al popolo che lo Stato fa bene a sperperare il denaro dei cittadini di oggi e di domani? Ma è semplice: facendo leva sull’invidia sociale, hanno puntato il dito contro la finanza, le banche, le agenzie di rating, la Germania della Merkel e il “liberismo selvaggio”. Nello specifico, sono riusciti a fare credere al popolo che la crisi del debito sarebbe stata deliberatamente provocata dai finanzieri e dai banchieri, che vengono dipinti come massoni che complottano per spartirsi i resti dell’Italia. Inoltre, sono riusciti a fare credere al popolo che l’Europa sarebbe in mano alla Germania, che si divertirebbe sadicamente a distruggere l’Italia imponendo la “austerità” e impedendo alla Bce di stampare altro denaro. Infine, sono riusciti a fare credere al popolo che la causa prima ed unica della sua infelicità terrena sarebbe un fantomatico eccesso di liberalismo economico, ribattezzato “liberismo selvaggio”. Inoltre, soo riusciti  a fare credere al popolo che “liberismo selvaggio” sarebbe sinonimo di  “darwinismo sociale”. Come all’interno di una specie gli individui più “adatti” liquiderebbero fisicamente gli individui “inadatti”, così nel mercato “liberista” i “ricchi” sfrutterebbero, opprimerebbero e deprederebbero i “poveri”.

A propalare menzogne, ossia a commettere atti di ingiustizia contro la verità, ci si sono messi anche i cattocomunisti e i tradizionalisti cattolici. Dando man forte agli intellettuali di sinistra, questi cattolici sostengono impunemente che il “liberalismo” sarebbe una ideologia anti-cristiana, sorella del comunismo e del nazismo. Per loro Ronald Reagan e Margaret Thatcher sarebbero poco meno criminali di Hitler e Stalin. Sempre attentando alla giustizia dell’informazione, traggono abusivamente dal Vangelo una ideologia pauperista e manichea secondo cui ogni povero sarebbe buono a prescindere mentre ogni ricco sarebbe cattivo a prescindere. Naturalmente, l’ideologia pauperista non può che portare alla socialdemocrazia keynesiana. Chi pensa che i ricchi siano tutti cattivi per definizione, finirà inevitabilmente per chiedere allo Stato di punire i ricchi spogliandoli di tutte le loro ricchezze e simmetricamente di premiare i poveri consegnando loro le ricchezze sottratte ai ricchi (in effetti la vecchia Dc era un partito socialdemocratico che mirava alla “ridistribuzione delle ricchezze”).

Fin quando propaleranno queste menzogne, questi cattolici non faranno che aggravare le vere ingiustizie sociali, che oggi sono quasi tutte causate da uno Stato ateo che diventa ogni giorno più avido e rapace. Non è certo il “liberismo selvaggio” che costringe le aziende a fuggire all’estero o a chiudere. Non è certamente il “liberismo selvaggio” che spinge gli imprenditori al suicidio. Sono le tasse.

L’unica maniera per combattere queste terribili ingiustizie sociali, è ristabilire la verità

Non è vero che i “ricchi” rubano ai “poveri”, almeno non più. Nei secoli passati il popolo, che non era ricco, era obbligato a mantenere la classe nobiliare, che era ricca. Ma la classe nobiliare ha perso da tempo immemorabile i suoi privilegi, e ai discendenti dei conti e di marchesi tocca andare a lavorare.  I ricchi di oggi non sono nobili parassiti del popolo bensì professionisti e imprenditori di successo, quasi tutti partiti dal nulla. In altri termini, nella società contemporanea, che è almeno in parte liberal-capitalista, la ricchezza è quasi sempre direttamente proporzionale al merito: più sei bravo e più guadagni.  Inoltre, per definizione il merito del singolo poco o tanto va a vantaggio di tutti. Il bravo imprenditore fa prosperare la sua azienda, facendo aumentare il reddito di suoi dipendenti e creando sempre nuovi posti di lavoro. Quindi nella società liberal-capitalista basata sulla meritocratica il ricco non ruba al povero ma casomai arricchisce sia se stesso che il povero.

Nella società di ieri, dominata dall’aristocrazia, c’erano pochi ricchi e molti poveri. Nella società di oggi, basata sulla meritocrazia, i poveri sono sempre meno. C’è qualcuno che ha il coraggio di dire che per le strade delle nostre città c’è più miseria che nell’Inghilterra di Dickens? Per quanto possa sembrare scandaloso, per quanto possa urtare la sensibilità (invidiosa) di molti, oggi i poveri sono meno poveri proprio per merito degli odiati “ricchi”. Infatti, sono i professionisti di successo e gli imprenditori di successo a creare posti di lavoro per i poveri e a introdurre quelle innovazioni tecnologiche che migliorano la vita di tutti.  Oggi le invenzioni di Steve Jobs e Bill Gates – per dirne solo due – entrano anche nelle case più umili, che hanno a disposizione confort e tecnologie che i nobili di ieri neppure si sognavano.

Non è vero che oggi i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sono sempre più poveri: è vero piuttosto che aumenta la “forbice” fra ricchi e poveri. A livello matematico, se un povero e un ricco raddoppiano i loro rispettivi stipendi, a livello matematico il divario fra i due stipendi aumenta. La distanza che c’è ad esempio fra 500 euro e 5000 euro è minore rispetto alla distanza c’è fra 1000 euro e 10.000 euro. A questo punto si può obiettare che, se lo Stato socialdemocratico toglie 5000 euro a chi ne guadagna 10.000, in primo luogo il ricco non morirà di fame e in secondo luogo lo Stato potrà investire produttivamente quei soldi, creando posti di lavoro da dare ai “poveri. In realtà, in ogni angolo del mondo i posti di lavoro pubblici sono tutti nel migliore dei casi poco produttivi e nel peggiore del tutto inutili. Già Frédéric Bastiat (1801 – 1850) nel secolo XIX si era accorto che i burocrati non solo non producono nulla ma rallentano ed ostacolano la produzione delle ricchezze opprimendo i cittadini produttivi con scartoffie. E oggi di impiegati-burocrati nelle pubbliche amministrazioni ce ne sono dieci volte tanto rispetto a quanti ce ne erano in Francia ai tempi di Bastiat. E poi c’è anche di peggio dei burocrati. Servono forse a qualcosa dieci forestali per ogni albero della Sicilia? Per quanto riguarda i “servizi” ai cittadini forniti dai comuni e dalle regioni, ciascuno ha avuto modo di verificare che sono vergognosamente inefficienti. Al sud di sanità pubblica di può morire.

Dobbiamo avere il coraggio di dire che l’insieme dei posti di lavoro pubblici non creano le ricchezze ma le bruciano soltanto. Dobbiamo avere il coraggio di dire, con Bastiat, che ogni lavoratore pubblico è un parassita mantenuto dai contribuenti. Dobbiamo avere il coraggio di dire che i soldi dei contribuenti, oltreché ai parassiti che vegetano nei posti di lavoro pubblici, sono intascati da ladri di ogni genere e grado. Nei loro libri-inchiesta, Rizzo e Stella descrivono in maniera dettagliata tutte le innumerevoli, fantasiose maniere con cui la gente che gestisce il flusso denaro pubblico se ne mangia una parte senza dare nell’occhio.

Quindi, non è vero che lo Stato socialdemocratico toglie ai ricchi per dare ai poveri: è vero piuttosto che toglie ai produttori di ricchezza per dare ai parassiti e ai ladri.  Se lo Stato lasciasse i soldi ai legittimi proprietari, che quei soldi se li sono guadagnati col merito e il duro lavoro, questi potrebbero impiegare quei soldi per creare posti di lavoro produttivi. Infatti, in ogni angolo del pianeta i posti di lavoro privati sono per definizione infinitamente più produttivi dei posti di lavoro pubblici. Ai “poveri” converrebbe molto di più avere a disposizione posti di lavoro produttivi piuttosto che farsi mantenere dai contribuenti. Invece di permettere loro di creare ricchezza e posti di lavoro, lo Stato impone ai “ricchi” produttivi tasse talmente esorbitanti che questi sono costretti a chiudere bottega, e, se possono, a fuggire all’estero. Alcuni si suicidano.

Quando ha finito di sperperare i soldi dei contribuenti viventi e non può ulteriormente indebitare quelli futuri, il governo socialdemocratico, su consiglio di John Maynard Keynes, fa quello che un privato cittadino non può fare senza finire in galera come “falsario”: stampa denaro dal nulla. A memoria d’uomo, quando il governo “falsifica” montagne di miliardi, si verifica quel fenomeno che si chiama inflazione, e che altro non è se non una tassa occulta anzi un furto occulto. Togliere valore al denaro faticosamente accumulato dai cittadini col duro lavoro non può chiamarsi altrimenti che furto.

Sfidando il buon senso e la logica elementare, Keynes diceva che i posti di lavoro improduttivi nel settore pubblico farebbero crescere l’economia. Se fosse vivo oggi, incoraggerebbe la regione Sicilia ad assumere ancora più forestali di quanti non ne abbia già assunti. D’altra parte, lui consigliava di assumere la gente per scavare le buche e per ricoprirle… D’accordo, è inutile spiegare nei minimi dettagli tutti i passaggi logici anzi illogici di un simile delirio. Dico soltanto che negli ultimi cinquant’anni tutti i governi occidentali hanno tartassato i cittadini produttivi, hanno indebitato i cittadini non ancora nati (“deficit spending”) e hanno falsificato montagne di miliardi (“quantitative easing”) proprio l fine di creare il maggior numero possibile di posti di lavoro pubblici, che è come dire pagare la gente per scavare le buche e per ricoprirle.  A memoria d’uomo, queste politiche non hanno mai avuto effetti positivi. Tanto per chiarirci, le politiche keynesiane adottate da Roosevelt all’indomani della crisi del 1929 (il “New Deal”) non hanno posto termine alla crisi ma l’hanno trasformata in una Grande Depressione della durata di quindici anni. Subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale il governo Usa dovette dichiarare la bancarotta e tagliò tutte le spese, rimandando a casa molti dipendenti.  L’economia statunitense forse tracollò? No: cominciò a crescere ad un ritmo prodigioso. Il boom economico che ha coinvolto gli Usa e, per riflesso, l’Europa dal 1945 al 1965 circa non ha eguali nella storia dell’umanità. Poi il governo degli Usa tornò a sperperare i soldi dei cittadini e a stampare denaro dal nulla. E negli anni Settanta il mondo occidentale conobbe un nuovo mostro: la stagflazione, che la compresenza mortale di inflazione e disoccupazione.

La storia di oggi dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio che ridistribuire le ricchezze significa distruggerle, che falsificare denaro significa rubare e che non si può indebitarsi all’infinito senza mai pagare i creditori. Sia chiaro a tutti che i colossali debiti che stanno inghiottendo, come buchi neri, le nazioni occidentali sono stati causati da cinquant’anni di “deficit spending” keynesiano. E sia chiaro che non solo per la piccola insignificante Italia ma per ogni nazione europea, per gli Usa e per il Giappone non c’è scampo se non si comincia immediatamente a tagliare all’osso la spesa pubblica. Come possono sopravvivere delle nazioni in cui c’è un parassita improduttivo ogni dieci cittadini produttivi? Insomma, oggi non sono i “ricchi” a rubare ai “poveri”: è lo stato a rubare sia ai ricchi che ai poveri per dare ai parassiti e ai ladri.

Invece di denunciare il problema del debito, i politici e gli intellettuali di sinistra se la prendono con i tedeschi, con gli speculatori e i banchieri, invitando il popolo a linciarli: “I tedeschi ci impongono l’austerità e ci impediscono di stampare denaro, mentre banchieri e speculatori hanno svenduto i titoli sovrani italiani per alzare gli interessi sul debito e guadagnarci!”. Ora, come ho detto, stampare denaro significa rubare e quindi dobbiamo ingraziare la Merkel, che fa di tutto perché non venga stampato. Quanto alla fantomatica “austerità”, quello che l’Europa aveva chiesto all’Italia era di tagliare la spesa pubblica, non di alzare le tasse. Ma i politici hanno preferito alzare le tasse pure di non tagliare un solo euro e non scontentare così i parassiti, che valgono oggi parecchi milioni di voti. Per non perdere pochi milioni di voti, condannano alla morte economica cinquanta milioni di cittadini. Sia chiaro a tutti che nessuna nazione nella storia umana è mai sopravvissuta con una tassazione così alta. E veniamo alla svendita dei titoli di Stato italiani. Semplificando al massimo, un titolo di stato è un pezzo di carta che rappresenta un brandello del debito pubblico italiano, poniamo 1000 euro. Se un risparmiatore decide di compralo, lo Stato italiano si impegna personalmente a restituirgli in futuro 1000 euro più un piccolo interesse, poniamo 50 euro. Ma ormai i risparmiatori non vogliono comprare i titoli italiani, perché sanno bene che difficilmente lo Stato italiano riuscirà a ripagarli. Infatti il debito è ormai fuori controllo, e non basterebbe tutto il Pil italiano per ripagarlo. Voi che imprecate contro le banche e le agenzie di rating demo-pluto-giudaico-massoniche, rispondete sinceramente: se foste voi a possedere montagne di titoli sovrani che molto probabilmente non verranno ripagati, rischiando così di finire su una strada a chiedere l’elemosina, non cerchereste forse di liberarvene? Per invogliare le banche e i risparmiatori a comprare gli svalutati titoli italiani, lo Stato italiano alza gli interessi sul debito. Se un risparmiatore compra 1000 euro di debito, lo stato si impegna a restituirgli in futuro 1000 euro più 100. E quando 100 non bastano ad attirare risparmiatori, lo stato ne promette 200, poi 300, poi 400… finché gli interessi sul debito diventano insostenibili. Insomma, pure di non tagliare la causa prima del debito, che è la spesa pubblica, lo Stato ci condanna a pagare oltre all’insostenibile debito anche gli interessi sul debito. Che è come dire che ci condanna a morte.

Come accennato, gli intellettuali della sinistra radical-chic fanno credere agli italiani che la “crisi” sarebbe causata dal fantomatico “liberismo selvaggio”. Ma come abbiamo visto, in realtà la causa prima e unica della crisi è la spesa pubblica. La spesa pubblica sta al mercato liberale come la polmonite sta ai polmoni. Infatti, le esorbitanti tasse sul lavoro e sul consumo necessarie a sostenere una spesa pubblica ormai fuori controllo, cui si aggiungono una selva bizantina di regolamenti inutili, fanno agonizzare il mercato. Quindi, fra tasse insostenibili e inquinamento burocratico, di “liberismo selvaggio” non c’è mai stata traccia né in Italia né negli altri paesi occidentali. Quello che i mentitori chiamano “liberismo selvaggio” in realtà si chiama liberalismo, ed è l’esaltazione di una cosa meravigliosa che si chiama libertà economica.

La storia dice che questo mondo non è perfetto e che quindi non esiste la soluzione perfetta per tutti i problemi del mondo. Tuttavia esistono soluzioni migliori delle altre. Ebbene, solo chi non conosce la storia recente può negare che, laddove è stato applicato, il liberalismo ha sempre portato maggiore prosperità economica e maggiore benessere per tutti, non solo per i “ricchi”, di quanto non ne abbia mai portati la socialdemocrazia. Nessuno può negare che negli anni Ottanta, per merito delle riforme liberali di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, le economie degli Usa e della Gran Bretagna crebbero aritmi vertiginosi, trainando la crescita economica di tutte le altre nazioni occidentali, Italia compresa. Poi negli anni Novanta sia gli Usa che la Gran Bretagna liquidarono tutte le riforme liberali, e iniziò quel lento declino economico che nel 2008 è diventato tracollo. Quindi a monte della crisi non c’è il “liberismo selvaggio” ma proprio l’abbandono del “liberismo selvaggio”.

Oltretutto, i cattolici che considerano abusivamente il liberalismo una ideologia anti-cristiana, sorella del comunismo e del nazismo, sappiamo che nella enciclica Centesimus annus Giovanni Paolo II, seguendo il liberale cattolico Michael Novak, dava sostanzialmente ragione ai liberali. Sappiano inoltre che sia Ronald Reagan che Margaret Thatcher erano cristiani convinti (pare che Reagan sia diventato addirittura “papista” in fin di vita). E la loro fede cristiana non era per nulla indipendente dalle loro convinzioni liberali. Infatti, il liberalismo non è una ideologia modernista, sorella del comunismo e del nazismo, ma è una corrente di pensiero che affonda le sue radici nella Summa san Tommaso d’Aquino e, prima ancora, nel Vangelo. Il pensiero liberale del divino dottore fu poi perfezionato e approfondito dai tomisti dei secoli successivi, in particolar modo da quelli della scuola di Salamanca. John Locke non disse nulla che non fosse già stato detto un secolo prima da quei dotti monaci spagnoli. Prima ancora che nella Summa, il pensiero liberale affonda le radici nel Vangelo. Nella parabola dei talenti Gesù paragona il buon cristiano ad un servo che sa fare fruttare un piccolo capitale iniziale di pochi talenti.  In numerose parabole si parla di piccoli imprenditori agricoli che danno lavoro a parecchi “servi” ossia dipendenti. Poiché si fondava sul Vangelo, la società europea era estremamente “liberale” in campo economico già nell’alto Medioevo. Il capitalismo è nato nei conventi cistercensi, che erano anche ferventi centri di scambio, e le banche sono nate nei comuni italiani. Lungo le vie commerciali che univano l’Italia settentrionale alla Baviera alla Borgogna alle Fiandre si muovevano ininterrottamente uomini, merci, idee e pure arte. La pittura italiana e la pittura fiamminga si sono nutrite di reciproche influenze. La Firenze di Dante era ricchissima.

In effetti, nell’epoca più cristiana della storia, le persone non si vergognavano di creare e accumulare ricchezza per sé stesse e specialmente per il prossimo.  Come fai a fare la carità ai poveri se non produci abbastanza neppure per te stesso? Insomma, la gente di fede nel Medioevo sapeva trattare con distacco i beni terreni e, all’occorrenza, spogliarsene (sull’esempio di san Francesco), ma non era pauperista. Infatti il pauperismo è una ideologia satanica che deriva dall’eresia catara e manichea, che denigra la carne e la creazione di Dio. Cristo non era cataro. Nelle sue parabole, non condanna la ricchezza ma condanna piuttosto il cattivo uso della ricchezza. Il ricco Epulone va all’inferno non perché è ricco, ma perché passa le sue giornate a gozzovigliare senza curarsi dei poveri come Lazzaro, che raccoglie le briciole che cadono dalla sua mensa. In altre parabole il personaggio “buono” è proprio un padrone mentre il “cattivo” è un suo servo. Quale è dunque la differenza fra il ricco cattivo e il ricco buono? Che il primo non aiuta i poveri e pensa solo a godere le sue ricchezze, mentre il secondo aiuta i poveri e investe proficuamente le sue ricchezze in una vera e propria azienda.

Accecati dal pauperismo anti-cristiano, i catto-comunisti idolatrano lo Stato che “ridistribuisce le ricchezze2 ossia che pretende di togliere ai ricchi per dare ai poveri. Infatti, nella loro visione manichea il ricco è cattivo a prescindere e il povero è buono a prescindere, e di conseguenza pensano che lo Stato abbia il dovere di “punire” il ricco.  Essi non si rendono conto che lo Stato socialdemocratico redistribuzionista è intrinsecamente anti-evangelico, in primo luogo perché ostacola la produzione dei beni, in secondo luogo perché vorrebbe rendere superflua la carità o, in altri termini, imporre quella che Rosmini chiamava “carità coatta”. Infatti, togliere al ricco tramite il fisco per dare al povero significa, in un certo senso, forzare il ricco a fare la carità. Ma se è imposta, se non è libera, la carità cessa di essere una virtù. I ricchi hanno certamente l’obbligo morale di aiutare i poveri: ma devono farlo liberamente, per amore dei poveri e di Dio, non per paura di Equitalia.  Quindi, la socialdemocrazia è intrinsecamente anti-cristiana. Aggiungo che proprio John Maynard Keynes, uno dei massimi rappresentanti della corrente socialdemocratica, era un aristocratico massone che disprezzava profondamente il popolo e soprattutto i valori cristiani del popolo. Nella sua visione, il popolo doveva essere guidato da una piccola minoranza di Illuminati come lui. Egli operò una sorta di ribaltamento di tutti i valori cristiani in economia. Se il Cristianesimo insegna le virtù della parsimonia e della prudenza, che generano la tendenza economica al risparmio e alla previdenza, invece Keynes consiglia la prodigalità assoluta. Se il Cristianesimo induce il popolo a comportarsi come una formica, invece Keynes spinge il popolo si comporti come una cicala.

Ecco, la verità è questa. Ma il popolo la ignora. C’è qualche speranza di farla conoscere al popolo prima che sia troppo tardi?

P. S.

Da quanto detto, si capisce che il “liberalismo” non ha nulla a che fare col “darwinismo sociale”, inteso come teoria della supremazia del forte sul debole. Nella società liberale sia il ricco che il povero si arricchiscono, sebbene in proporzioni diverse. Oltretutto, la stessa teoria di Darwin ha ben poco a che fare con la libertà economica. In Le balle di Darwin, Johnathan Wells spiega che negli Usa le scuole e le università che vivono di finanziamenti pubblici sostengono la teoria di Darwin, mentre le scuole e le università private, che stanno sul mercato, sostengono teorie alternative a quella di Darwin. In sostanza, la teoria di Darwin non riesce a stare sul “mercato” delle idee scientifiche. In effetti, non convince più né gran parte degli specialisti né il vasto pubblico. Le prove contro di essa sono talmente numerose che è impossibile citarle tutte adesso: magari ne riparlerò. Per il momento rimando al libro di Wells. Nella virtuale lotta per la sopravvivenza scientifica la teoria di Darwin è destinata a non sopravvivere

EROS: o anticipo dell’infinito o idolo che uccide

Il mese scorso è uscito il nuovo numero di Pepe, che pubblico qui in pdf:

Pepe_26_Eros

Il mio articolo, che pubblico di seguito, si intitola “L’unica soluzione è il centuplo”. E’ la continuazione ideale di questo articolo

Nel film Harry a pezzi, Woody Allen in veste di Harry dice più o meno al figlio di sei anni: «La donna è Dio. Non ho detto che Dio è una femmina. Mettiamola in questo modo: le donne esistono. Non sappiamo se ci sia Dio ma le donne ci sono, e non in un paradiso immaginario, ma qui sulla terra. E alcune di loro vanno a servirsi da “Intimo notte”». In un altro film (Anything else) dice: «Camus ha detto che le donne sono quanto di più vicino esista al paradiso in terra». La seconda citazione chiarisce la prima: Allen non divinizza la donna bensì l’amore sessuale. Agli occhi dell’uomo la donna è “divina” solo in quanto e nella misura in cui provoca questo beatificante sentimento. Se al posto di donna mettiamo uomo, il senso della prima citazione non muta. Se infatti la donna è “paradiso in terra” per l’uomo, simmetricamente l’uomo lo è per la donna. Bisogna aggiungere che la donna lo è anche per la lesbica e l’uomo per lo è anche per il gay.

Woody Allen: ‹‹Le donne esistono, Dio non si sa…››

Insomma, Allen è riuscito a riassumere in poche, geniali parole una idea che oggi è largamente anzi universalmente condivisa: il fine principale se non unico della vita umana è l’amore sessuale. Attenzione: amore sessuale sta per sesso con amore e non per sesso senza amore. Per quanto riguarda la cosiddetta rivoluzione sessuale, che appunto ha “sdoganato” quello che si dice sesso senza amore, Augusto Del Noce ha detto tutto quello che c’è da dire nel fondamentale scritto dal titolo L’erotismo alla conquista della società (disponibile in rete all’indirizzo: http://www.culturacattolica.it/detail.asp?c=1&p=0&id=3796 ). In sintesi, Del Noce individua un nesso di causa effetto fra lo scientismo positivista e la rivoluzione sessuale: da quando la scienza ottocentesca ha negato l’anima e ridotto l’uomo a corpo, l’unico fine della vita dell’uomo è il piacere fisico, che verrà ricercato soprattutto attraverso la droga e il sesso. Individuando la causa della nevrosi nella morale sessuale tradizionale, la psicanalisi freudiana, dottrina eminentemente scientista, invita a distruggerla. Non posso che sottoscrivere la lucida analisi di del Noce. Tuttavia, a mio parere, a monte della rivoluzione sessuale non ci sono solo la psicanalisi freudiana e più in generale lo scientismo, ma anche il culto dell’amore romantico. A dispetto delle apparenze, oggi questo culto è ancora ben vivo. Più ancora del sesso in sé, inteso come mera attività corporea, la cultura di massa celebra infatti il sesso con amore. Se esaminate bene solo la produzione cinematografica e musicale di massa dal dopoguerra ad oggi vi accorgerete che il tema dell’amore sessuale è assolutamente preponderante. Ma era inevitabile che il culto dell’amore sessuale spianasse la strada al culto del sesso e basta. Provo a spiegarlo.

Quel misterioso fenomeno denominato innamoramento coinvolge in maniera totalizzante sia il corpo che l’anima. Se il corpo vive di bisogni ed istinti, l’anima vive di desideri. Noi desideriamo tante cose diverse, alcune di meno e altre di più. Più intensamente desideriamo una cosa, più grande la soddisfazione che ci aspettiamo da essa. Ma ditemi, quale oggetto del desiderio, una volta ottenuto, è riuscito a soddisfarvi in maniera totale e definitiva? In altri termini, quale oggetto vi ha reso definitivamente felici? Nessuno, vero? Se ponete attenzione a questa vostra fatale incontentabilità, potrete prendere coscienza del fatto che tutti i vostri desideri, uniti insieme, formano un unico desiderio infinito. Prenderete coscienza che noi non desideriamo questa o quella cosa, ma l’infinito stesso. Il problema è che nulla in questa terra è infinito, anzi nulla nell’universo e neppure l’universo stesso è infinito. L’infinito è da un’altra parte.

Ho detto che noi desideriamo alcune cose più e altre meno. Ebbene, sembra che in cima alla classifica delle cose che desideriamo di più ci sia la persona di cui, una volta o l’altra, ci innamoriamo. Quel fenomeno misterioso denominato innamoramento ci fa sperimentare l’ampiezza del nostro desiderio. Infatti, quando siamo in preda a quell’inesplicabile sentimento, ci sembra che l’oggetto del nostro amore possa davvero soddisfarci infinitamente. Quando finalmente lo otteniamo, ci accorgiamo che l’agognata felicità si è spostata più avanti, come un cielo che tanto più si allontana quanto più è avvicinato. Ma di questa fatale delusione parlerò poi, adesso esaminiamo l’illusione che la precede. Più importante del fatto che la persona amata non possa soddisfare il desiderio di felicità, è il fatto che all’inizio, quando siamo innamorati, noi siamo fermamente convinti che invece lui\lei in qualche misura possa davvero renderci definitivamente felici. Cosa più importante ancora, nell’esperienza dell’innamoramento il desiderio infinito dell’anima passa attraverso e quasi si fonde col desiderio sessuale, che in sé stesso è cosa buona. Cattivo non è il piacere sessuale in sé stesso, ma l’abuso del piacere sessuale. Analogamente, cattivo non è il consumo di alcol, ma l’ubriachezza. L’abuso di piacere sessuale si chiama lussuria, che è l’alcolismo del sesso. Se vissuta fino in fondo, l’esperienza dell’innamoramento allontana dall’abisso della lussuria e avvicina al cielo, che è sempre più lontano quanto più è avvicinato. Ma se è vissuta in maniera superficiale, ti fa precipitare in quell’abisso.

Dante-Beatrice oppure Paolo-Francesca?

Nel concreto, che cosa significa vivere bene l’amore? Di fronte alla persona amata si prova allo stesso tempo desiderio e stupore. L’innamorato da una parte desidera ardentemente, anche fisicamente, la persona amata e dall’altra prova ammirazione e stupore per tutto quello che essa è. Come un giardino per crescere bene deve essere potato e ripulito dalle erbacce, e come una massa d’acqua per non inondare i campi deve essere incanalata fra robusti argini, così il desiderio sessuale (che nell’innamoramento, come ho detto, si salda col desiderio infinito dell’anima), per svilupparsi armoniosamente, deve essere educato, frenato, mortificato. Ebbene, si potrebbe dire che lo stupore sia un freno naturale del desiderio. Se prevale sullo stupore, il desiderio sessuale si pervertirà in una volontà di possesso che è un piano inclinato verso la lussuria. Se invece lo stupore riesce a prevalere costantemente sul desiderio, il desiderio stesso sarà fortificato e approfondito (Roger Scruton ha notato che se c’è una cosa che ci insegnano i romanzi di Jane Austen, è che l’attesa e la pazienza giovano alla passione). Come un pungolo, lo stupore spinge l’anima amante a migliorare sé stessa, a conformarsi ad una grandezza umana ideale. Chi ama vuole essere degno del suo oggetto d’amore e quindi cerca di superare sé stesso. Dante ha amato talmente tanto Beatrice che, per diventare degno dei lei, ha attraversato l’inferno e il purgatorio. In conclusione, l’esperienza amorosa è vissuta male se alimenta esclusivamente la brama di possedere e godere la persona amata, mentre è vissuta bene se alimenta il desiderio di diventare degni della persona amata e soprattutto degni di Dio.

Dante e Beatrice stanno contro Paolo e Francesca: l’amore per Beatrice trascina Dante fino al cielo, mentre l’amore fra i due cognati li trascina entrambi all’inferno. Infatti, Dante fa prevalere lo stupore sul desiderio, mentre i due cognati fanno prevalere il desiderio sullo stupore, senza seguire la strada verso l’ideale – tutta in salita – indicata dall’esperienza amorosa stessa. Al di là delle apparenze, andare a fondo all’esperienza amorosa non significa rinunciare alla soddisfazione del desiderio sessuale (non tutti infatti sono chiamati ad essere “eunuchi per il regno dei cieli”) ma, casomai, rinunciare alla lussuria e tendere all’ideale. Poi va da sé che nessuno ce la fa da solo a non cadere mai nel peccato, ma l’importante è avere almeno il proposito, il desiderio di non cadervi.

Il sentimento che Dante prova per Beatrice non è sostanzialmente diverso da quello che i due celebri cognati provano l’una per l’altra: di innamoramento si tratta, e chi riesce a descrivere questo sentimento è un genio. E al di là delle apparenze, anche l’amore di Dante per Beatrice ha sfumature sessuali, sebbene sublimate. E pure Dante ha conosciuto la seduzione del peccato: quando rivede Beatrice nel paradiso terrestre, arrossisce per la vergogna e Beatrice gli fa una bella ramanzina. Quindi l’importante non è non cadere mai nel peccato, ma rialzarsi sempre dopo ogni caduta e rimettersi in cammino verso l’ideale.

Qui sta il punto: anche l’amore può essere un idolo

L’importante non è non peccare mai, ma non fare sacrifici agli idoli. Parafrasando un celebre modo di dire, si potrebbe dire che peccare è umano mentre idolatrare è diabolico. Paolo e Francesca (s’intende quelli letterari, non quelli reali, di cui non sappiamo nulla) stanno all’inferno perché si sono inchinati ad un idolo, che ha ordinato loro di commettere peccato. Un idolo di nome amore: “Amor che al cor gentil ratto s’apprende” e “Amor che a nullo amato amar perdona”. E siamo al punto.

Da quanto ho detto finora, si capisce che l’amore sessuale ha carattere di segno. Ogni segno allude ad un significato più grande del segno stesso. Per fare un esempio banale, il segno grafico che somiglia ad un otto steso in orizzontale allude al concetto di infinito matematico. Ma questo segno grafico, come ogni segno grafico, in sé stesso è vuoto: indica un significato senza contenerlo. Invece, l’amore è un segno che ha in sé stesso anche un anticipo del significato cui allude. Amare non significa soltanto aspettare l’infinito ma, in un certo senso, goderne un piccolo anticipo. Una vasta tradizione letteraria conferma che, quando è corrisposto e coronato dal possesso, quella mescolanza inesplicabile di emozioni spirituali e desiderio sessuale chiamato amore dona la più grande gioia che sia possibile sperimentare in questa valle di lacrime. Ed eccoci al punto dolente. Sebbene grande, enorme, questa gioia non è infinita e quindi è incapace di soddisfare completamente il desiderio infinito. E’ un mero anticipo, possiamo dire una caparra molto piccola di una inimmaginabile, soprannaturale gioia. Per quanto riguarda i soldi, nessuno si accontenta di una caparra: aspetta di avere la cifra intera pattuita. Per quanto riguarda la felicità, che è molto più importante del conto in banca, perché accontentarsi di una piccola caparra? Se è intelligente (di quella intelligenza che solo la fede può donare) l’anima amante gusta quella piccola caparra di gioia senza tuttavia accontentarsi, spingendo il desiderio oltre l’oggetto d’amore, verso Dio. Dante non si “ferma” a Beatrice: sale oltre, fino ad intravedere “Amor, che move il sole e l’altre stelle”.

La malattia che ci divora: la “monogamia seriale”

Ma l’anima amante può anche ingannarsi, credersi completamente appagata da siffatta caparra e dimenticarsi di risalire dal segno al significato. In altri termini, per quanto possa sembrare paradossale, ci si può inchinare al segno come ad un idolo. E al cristiano Dante succede l’umanista Petrarca, che idolatra il suo stesso amore per Laura. Da questo punto di vista, poco importa che né Dante né Petrarca, da quanto dicono loro stessi, abbiano potuto possedere fisicamente le loro rispettive amate: quello che importa è che in un caso l’amore è segno, nell’altro un idolo intrinsecamente orientato alla lussuria. Se ti fai idolo di una cosa, qualunque cosa, non fai un passo verso l’ideale: miri soltanto a possedere quella cosa. Poi ti accorgi che, quando ce l’hai fra le mani, diventa cenere.

L’idolo di nome amore è molto popolare da un paio di secoli. Lo trovi nella maggior parte dei romanzi, dei film, delle canzoni. Te lo riducono ad un sentimentalismo zuccheroso dalle proprietà afrodisiache e te lo vendono come il paradiso in terra: «Dio non c’è ma le donne ci sono per gli uomini e gli uomini ci sono per le donne». Il problema è che non dura a lungo. Che sia segno o idolo, in ogni caso l’innamoramento è una esperienza effimera. Solo che, se lo vivi come segno, puoi continuare ad amare: all’ardore effimero dell’eros succede l’eroismo dell’agape. Se invece lo vivi come idolo, non puoi amare. Quando la persona amata non suscita più quella mescolanza inesplicabile di emozioni spirituali e desiderio sessuale, non trovi più nessuna ragione per stare con lei. La donna è il paradiso in terra, ma un paradiso a termine: bisogna cambiarla spesso. Oggi nel nome dell’amore si commette il peggiore dei crimini contro l’Amore, quello vero: il divorzio. Quante famiglie ha sfasciato, quanti bambini ha fatto soffrire quell’idolo? D’altra parte, la cultura del divorzio (le cui tragiche conseguenza sociali sono sistematicamente taciute dai media) ha partorito il mostro della “monogamia seriale”. Oggi più di uno psichiatra alla moda afferma impunemente che la coppia sarebbe ormai un concetto del passato, che per vivere bene sarebbe necessario abituarsi a cambiare spesso partner. D’altra parte, i giornali di gossip, ormai i più letti in assoluto, alimentano instancabilmente la nuova mitologia della “monogamia seriale” salutando ogni giorno i divorzi, gli adulteri e i flirt dei vip come lieti eventi.

Ma la medicina non sono i valori morali

Come abbiamo visto, secondo la cultura contemporanea l’amore sessuale è l’unica cosa per cui valga la pena vivere. Ma poiché ogni amore dura poco, allora per rendere la vita sopportabile bisogna passare da un amore all’altro. L’unico problema è che l’innamoramento, che sia segno o idolo, non basta volerlo per ottenerlo. Non potendone proprio fare a meno, perché senza di esso la vita non varrebbe la pena di essere vissuta, ci si abitua a scambiare per amore ogni più lieve infatuazione. E se neppure l’infatuazione arriva, rimane il caro vecchio sesso e basta. Insomma, dietro l’idolo dell’amore romantico si cela la pornografia.

La diagnosi è chiara: oggi la religione è sostituita dall’idolatria dell’amore sessuale, che porta delle terribili conseguenze sociali. Va bene, direte voi, questa è la diagnosi. Ma la cura? Per guarire l’uomo contemporaneo da questa terribile idolatria potrebbe forse bastare una rigorosa educazione morale? Certamente no. Alla gente, giustamente, non interessa sapere che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, ma che cosa rende felici e che cosa no. Allora è forse sufficiente smascherare gli idoli in pubblico, fare capire alla gente che gli idoli non danno la felicità bensì soltanto effimere illusioni di felicità? Neppure. In fondo, le persone si prostrerebbero agli idoli anche se fossero certe che gli idoli mentono. Lo stesso Woody Allen ne è certo. Infatti ripete spesso che l’amore sessuale, così come lo vive lui, è solo una bellissima illusione alla quale tuttavia lui non rinuncerebbe per nessuna ragione al mondo. Provo a fare un riassunto dei suoi discorsi: «D’accordo, l’amore può donarmi solo fragili illusioni di felicità. Ma se mi togli queste illusioni, che cosa mi rimane? Lasciami illudere, e pazienza se dura poco. Appena una illusione amorosa finisce, ne faccio iniziare subito un’altra». D’altra parte, anche Giacomo Leopardi per qualche tempo si illuse – e qui il gioco di parole è appropriato – che le “illusioni”, non solo quelle amorose, potessero bastare a dare senso alla vita. Insomma, tagliamo corto: se l’alternativa è fra le illusioni e il nulla, meglio le illusioni. L’ateo, per non disperare, è costretto a idolatrare qualunque cosa possa essere idolatrata, dall’amore-sesso alla carriera e chi più ne ha più ne metta.

Ma allora, l’unico rimedio all’idolatria è la fede? Certamente sì, ma solo se la fede è integra. Una fede che rimane al livello di convinzione intellettuale è largamente insufficiente. La convinzione che Dio esiste e che solo Lui possa soddisfare il desiderio infinito non basta a dare senso alla dura quotidianità e quindi a guarire l’anima dall’idolatria. Un credente, paradossalmente, potrebbe dire: «Se il mio desiderio infinito potrà essere soddisfatto solo post mortem, non è meglio morire subito? Se non posso morire subito, lasciatemi i miei idoli almeno fin quando non muoio: le illusioni donate dagli idoli mi rendono la vita sopportabile». Ma allora, non c’è rimedio all’idolatria? In realtà, un rimedio c’è, uno solo: si chiama centuplo. «Chi mi segue avrà il centuplo quaggiù e in futuro la vita eterna». Se lo segui, Lui può aiutarti a capire tutti gli aspetti dell’amore e a vivere l’amore sessuale come segno. E viverlo come segno significa goderlo cento volte tanto. E goderlo cento volte tanto significa capire che in fondo al volto della persona amata c’è proprio Lui.

 

CARI AVVENTORI DI QUESTO LOCALE VIRTUALE, DEVO RINGRAZIARVI: QUESTO POST, PUBBLICATO APPENA IERI, HA ATTIRATO UN NUMERO RECORD DI CONTATTI PER IL MIO BLOG, CONSIDERANDO INOLTRE CHE IN LUGLIO I CONTATTI SONO PIU’ CHE DIMEZZATI. EVIDENTEMENTE L’ARGOMENTO INTERESSA. 

CHE ASPETTATE A CLICCARE MI PIACE ALLA PAGINA FACEBOOK DI PEPE E MAGARI AD ABBONARVI? IL COSTO DELL’ABBONAMENTO E’ MOLTO BASSO, ED INOLTRE POTRETE SOSTENERCI. 

L’APOCALISSE DELLA BELLEZZA. Riflessioni sulla bancarotta estetica dell’arte contemporanea.

Pubblicato su Pepeonline in due parti:

http://pepeonline.it/?p=449

Alcuni mesi fa su Repubblica Marco Lodoli ha denunciato che la cultura umanistica è in fin di vita. Ebbene, l’arte è la componente fondamentale della cultura umanistica. Se muore l’umanesimo muore la civiltà e se muore la civiltà muore l’uomo. Innanzitutto, dobbiamo chiederci: l’arte a che serve? A questa domanda san Tommaso d’Aquino ha dato una risposta definitiva: “L’uomo non può vivere senza diletti. Per questo, se sarà privato di diletti spirituali, passerà a quelli carnali”. Per tradizione, l’aggettivo “spirituale” si riferisce a tutto quello che concerne la dimensione non materiale dell’uomo, innanzitutto la dimensione della mente, che comprende non soltanto la ragione ma anche il sentimento, il desiderio, la volontà, la percezione, la memoria, la coscienza e infine anche l’inconscio. Ebbene, lo scopo dell’arte è proprio quello di dilettare la mente. Siccome solo l’uomo, fra tutte le creature, ha una mente, solo l’uomo fa arte. Quindi, la capacità di produrre e godere arte è ciò che distingue l’uomo dall’animale.

Quindi, togliendo l’arte, l’uomo ritorna animale. Ed è proprio quello che sta succedendo, almeno a giudicare ai termini più digitati sui motori di ricerca. Per farla breve, in quest’era che si suole denominare “post-moderna” è successo proprio quello di cui san Tommaso metteva in guardia: privati troppo a lungo di diletti spirituali, gli uomini si sono volti in massa ai diletti carnali. Mi riferisco al fatto che oggi il settore economico più fiorente a livello mondiale è quello della prostituzione e dei prodotti pornografici. Se fino a ieri i politici, per paura di apparire “bigotti”, hanno fatto finta di niente, oggi cominciano, sia pure timidamente, ad ammettere che forse sarebbe opportuno cominciare ad erigere qualche barriera per contenere, almeno contenere, lo tsunami colossale di liquami pornografici che sta inondando l’intero orbe terracqueo. Il governo islandese ha annunciato due mesi fa che metterà qualche blando divieto alla diffusione di pornografia via internet, e subito è stato accusato di bigotteria e oscurantismo. Onore al governo islandese. Tuttavia, i divieti e le sanzioni non bastano: per fermare lo tsunami pornografico occorre una vasta operazione culturale, incentrata sulla educazione estetica.

A dire il vero la pornografia è entrata da tempo come un virus, anche nell’arte stessa o, meglio, in ciò che gli somiglia. Per averne un’idea, pensate a un film che hanno visto tutti: Arancia meccanica di Stanley Kubrik. In una celebre scena, il teppista Alex (Malcolm McDowell) si introduce nella casa di una vecchia signora. Quando tocca un curioso oggetto poggiato sopra un mobile, la vecchia signora protesta: “Fermo non toccare: è una importante opera d’arte!” E il teppista esclama “vecchia porcona!”, che la dice tutta. Stanley Kubrick è stato davvero profetico: infatti oggi, a quaranta anni dall’uscita del film, nelle grosse esposizioni internazionali d’arte (arte?) ne potete trovare all’ingrosso di “importanti opere d’arte” in tutto simili a quella. Di tutti gli infiniti aspetti della vita umana, sembra che agli “artisti” più quotati a livello internazionale interessino solo il sesso, la morte e poco altro. Il problema è che non si sforzano neppure andare al fondo, di scandagliare il mistero, di cercare il senso recondito di questi aspetti fondamentali della vita umana. Anzi, si direbbe proprio che si sforzino di svuotarli di ogni senso, di volgarizzarli, di dissacrarli (è stato Roger Scruton a parlare di “dissacrazione” come carattere fondamentale dell’arte contemporanea). Guardano al sesso e alla morte non con sguardo di poeti ma con sguardo di depravati, sadici e perfino necrofili. Alcuni esempi: calchi in gesso di seni, falli e vagine umane (opere di Jamie McCartney), scheletri umani intenti a pratiche sodomitiche (opere di Jean-Marc Laroche), un busto umano composto di falli umani di plastica (opera di Tracey Emin), una mucca fatta a fette e uno squalo imbalsamato (opere di Damin Hirst), veri cadaveri umani scuoiati e plastificati (opere di Gunther Von Hagens). Gli psichiatri sanno bene che la pornografia confina con la scatologia. Non a caso, a volte gli artisti diventano addirittura simili a bambini che giocano con i loro escrementi (molto esplicite a questo proposito alcune performance di Paul McCarthy).

Ho detto che agli artisti mainstream interessa solo il sesso e la morte. Dimenticavo che sono morbosamente interessati anche ad un’altra cosa: i soldi. In effetti, le loro opere fruttano parecchio al “botteghino” dei musei e sono oggetto di colossali speculazioni finanziarie. Ebbene, il sesso e la morte c’entrano molto anche con i soldi. I produttori cinematografici sanno che, per vendere bene un film, bisogna riempirlo di sesso, violenza e cadaveri. Ebbene, gli artisti hanno imparato la lezione impartita dai produttori cinematografici e la applicano alla loro arte. Dal momento che va a punzecchiare direttamente la sfera degli istinti, scavalcando ogni barriera razionale, la rappresentazione del sesso e della violenza è una potente spezia psicologica. Più di recente, gli “artisti” hanno cominciato a fare largo uso di un’altra spezia: la provocazione. Per attirare l’attenzione del pubblico non c’è nulla di meglio che provocare scandalo, disgusto shock, ribrezzo o addirittura conati di vomito? Come si dice, che se ne parli male purché se ne parli. Oggi dire che un film “ha fatto scandalo” equivale ad elogiarlo e fargli una pubblicità gratuita. La provocazione si tinge spesso e volentieri di blasfemia. Pochi esempi: un crocifisso immerso nell’urina (opera di Gilbert e& George) una scultura che rappresenta Hitler in preghiera (opera di Maurizio Cattelan), una rana crocifissa (opera di Martin Kippenberger).

Quella che intasa le grosse esposizioni internazionali d’arte, sempre più simili a latrine, chiamatela come volete, ma non chiamatela arte. Infatti, fa tutto fuorché procurare diletti spirituali. E se non provoca diletti spirituali, non è arte. Oggi sembra realizzarsi la profezia di Hegel sulla “morte dell’arte”. Perché è morta? Quali le cause del decesso? Queste cause sono molteplici, ma tutte queste cause hanno a loro volta una unica causa, che è l’apostasia. Impossibile esaminare in questa sede tutte queste cause: lo farò in un saggio che sto scrivendo. Adesso esaminerò in maniera sintetica solo la causa principale: la negazione del valore oggettivo della bellezza.

La causa principale morte dell’arte è la morte della bellezza. Infatti la bellezza non è un accessorio, ma è l’elemento essenziale dell’arte, tanto è vero che una volta le arti si chiamavano “belle arti”.  Anche noi istintivamente di una pittura o di un film diciamo “bello” oppure “brutto”. Per noi come per i più autorevoli critici, un’opera può dirsi “opera d’arte” solo se è bella. E per un meraviglioso paradosso, può essere bella anche se ha a tema il dolore e la morte (si pensi a certi dipinti che rappresentano la passione di Cristo). Solo di recente la filosofia ha decretato apertamente la morte della bellezza. Ma la lunga agonia del concetto di bellezza è iniziata almeno due secoli fa, al tempo dei Lumi. Paradossalmente, fu proprio allora che nacque una filosofia incaricata di definire questo concetto: la filosofia estetica. I contributi più importanti alla filosofia estetica li hanno dati David Hume, Edmund Burke, Alexander Baumgarten ed Emmanuel Kant. Per tutti loro, la bellezza non esisterebbe negli oggetti che percepiamo, ma solo nella nostra mente. In altri termini, la bellezza non sarebbe una qualità degli oggetti belli, ma un sentimento suscitato in noi da questi oggetti. Per gli empiristi David Hume ed Edmund Burke la bellezza coinciderebbe precisamente con un “sentimento di piacere” causato in noi da certe forme, non con le forme stesse che lo causano. Burke ritiene che questo sentimento sia universale, mentre Hume ritiene che sia individuale. In sostanza, per Burke a tutti gli uomini, in ragione della comune struttura fisiologica, piacerebbero le medesime forme, mentre secondo Hume le medesime forme non piacerebbero a tutti gli uomini, ognuno dei quali avrebbe suoi personali e incomunicabili gusti. Hume tuttavia cerca di evitare il relativismo estetico assoluto, sostenendo che certe persone avrebbero più “buon gusto” delle altre. Se una cosa piace ad una persona di buon gusto, suggerisce Hume, puoi stare certo che è veramente bella. A questo punto, Hume cade nel ragionamento circolare: è bello ciò che piace alle persone di buon gusto, hanno buon gusto le persone a cui piace ciò che è bello. Emmanuel Kant ha il merito di avere superato l’edonismo superficiale dei due empiristi inglesi. Egli riprende da loro l’idea che la bellezza coincida col “sentimento di piacere”, ma questo sentimento lo distingue dal “piacevole”: bello non è “ciò che piace ai sensi nella sensazione” (che è appunto il piacevole) ma ciò che diletta la mente provocando “il libero gioco” di immaginazione e intelletto.

Ma in ogni caso Kant rende definitivo il soggettivismo estetico. Dopo Kant i principali teorici di estetica si sono preoccupati quasi esclusivamente di definire la natura e lo scopo dell’arte, tralasciando di definire la bellezza. Senza dubbio, accettano la definizione di bellezza fornita da Kant. Ma il fatto che gli stili e i gusti varino in continuazione da un luogo all’altro e da un’epoca all’altra sembra indicare che non tutti gli uomini condividono la medesima idea\sentimento di bellezza (in realtà non è così, come vedremo). Era dunque inevitabile che, un passo dopo l’altro, si arrivasse a negare anche l’esistenza di un’unica idea\sentimento di bellezza e che si affermasse il relativismo assoluto dei gusti. Partita da Hume, la filosofia estetica torna a Hume e anzi lo radicalizza. Se Hume ammetteva ancora, seppure incoerentemente, l’esistenza un “buon gusto”, adesso non si ammette neppure quello: “De gustibus non est disputandum”. Se i gusti sono tanti e nessuno è più vero dell’altro, al massimo si potrà fare una statistica dei gusti, e si potrà stabilire che l’opera che piace a più persone vale di più di quella che piace a meno persone. Se dunque alla gente piace vedere tutte le opere macabro-pornografiche di cui sopra, allora dal punto di vista relativista quelle opere sono arte, e chi lo nega è un bigotto oscurantista.

Ma adesso vediamo dove gli illuministi hanno sbagliato. Come abbiamo visto, la filosofia estetica settecentesca concepisce la bellezza come un sentimento o un’idea che non esiste al di fuori dell’uomo. Invece, prima dell’illuminismo nessuno aveva difficoltà a riconoscere che la bellezza esiste nelle cose come qualità oggettiva. Gli illuministi non sbagliavano affatto quando dicevano che noi tutti abbiamo la medesima idea\sentimento di bellezza. Ma il fatto che noi abbiamo questa idea\sentimento non significa affatto che la bellezza esista solo in questa idea\sentimento. Pensiamo alla matematica e alla geometria: esse sono vere sia nel nostro pensiero che nella realtà. Due più due fa quattro e l’ipotenusa è uguale alla radice quadrata della somma dei due cateti sia nel pensiero che nella realtà. Perché invece la bellezza dovrebbe esistere solo nel nostro pensiero?

Una volta ammesso che la bellezza esiste anche al di fuori della nostra mente, non ci resta che descriverla. Proviamo a paragonarla ad un colore, ad esempio al rosso. Non esistono soltanto le cose rosse ma anche il rosso, che è una certa gradazione delle onde luminose. E questa gradazione luminosa possiamo in qualche maniera isolarla dalle cose. Invece, la bellezza non è un fenomeno fisico e quindi non può essere isolata in provetta. Inoltre, è molto difficile da descrivere. Per noi è facile descrivere le singole cose belle, mentre è difficilissimo descrivere la bellezza stessa, intesa come qualità che accomuna tutte le cose belle. La varietà dei gusti e degli stili non dimostra che la bellezza è relativa, casomai dimostra che è sconfinata: la bellezza può manifestarsi in talmente tante forme che non si è mai finito di trovarle tutte. Descrivere la bellezza non significa dunque scegliere alcune forme belle a discapito di altre ma trovare gli elementi che hanno in comune le infinite forme belle. Ma a quanto pare, la bellezza è talmente misteriosa che nessuno è mai riuscito a trovare qualcosa come la formula chimica o matematica della bellezza. Al massimo, si è riusciti a stilare un lungo elenco di caratteristiche della bellezza: le principali sono, secondo tradizione, l’unità d’insieme e la proporzione fra le parti. Ma se è vero che tutte le forme belle sono unitarie e proporzionate, è altrettanto vero che non tutte le forme unitarie e proporzionate sono belle. Evidentemente, nella bellezza c’è una x misteriosa che sfugge al ragionamento. Per andare subito al sodo, quella x misteriosa ha a che fare col mistero stesso in senso teologico. La bellezza non è una cosa fisica, ma una “sostanza” metafisica. Di conseguenza, non può essere formulata in termini scientifici: può essere definita solo in termini metafisici e teologici. La formula definitiva della bellezza ce l’ha data San Tommaso d’Aquino: la bellezza è integrità (integritas) più proporzione (proportio) più “splendore del mistero” (claritas). Di questo “splendore del mistero” o “chiarità di una forma” possiamo dire soltanto, in maniera suggestiva e imprecisa, che è l’irruzione dell’infinito nella forma finita. Sì, la bellezza ha a che fare con Dio. La bellezza nella sua infinita estensione è attributo di Dio: è lo splendore del vero e del bene riuniti. Noi su questa terra vediamo riflessi infinitesimali della bellezza infinita.

Dunque non c’è arte senza bellezza e non c’è bellezza senza Dio. In altri termini, sembra che senza la fede sia impossibile fare arte bella. Gli intellettuali mainstream conducono da anni una jihad fanatica contro quel che resta del concetto di bellezza proprio perché hanno capito che non si può credere nella bellezza senza credere in Dio, e loro non vogliono crederci. Gli illuministi, ancora non avevano ripudiato la fede, almeno non del tutto: si dicevano deisti o agnostici. Perché avevano imprigionato la bellezza nei limiti della soggettività? Perché avevano intuito che la bellezza, lasciata libera, era pericolosa. La bellezza infatti conduce l’uomo fuori da sé stesso, verso il cielo. Essi credevano ancora in Dio, ma volevano crederci “moderatamente”, senza troppo entusiasmo. Insomma, essi hanno allontanato la bellezza da Dio, senza ancora negare Dio. Poi si è pensato che si potesse fare completamente a meno di Dio e tenersi solo la bellezza. Oggi si pensa di fare a meno anche della bellezza per tenersi solo l’arte. Ma l’arte, privata della bellezza, si auto nega. Quindi, ormai è come se fossimo alla resa dei conti: o ritorniamo alla fede o dobbiamo semplicemente rinunciare all’arte e annegare nella pornografia. A voi la scelta.

Navigazione articolo