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Alcuni mesi fa su Repubblica Marco Lodoli ha denunciato che la cultura umanistica è in fin di vita. Ebbene, l’arte è la componente fondamentale della cultura umanistica. Se muore l’umanesimo muore la civiltà e se muore la civiltà muore l’uomo. Innanzitutto, dobbiamo chiederci: l’arte a che serve? A questa domanda san Tommaso d’Aquino ha dato una risposta definitiva: “L’uomo non può vivere senza diletti. Per questo, se sarà privato di diletti spirituali, passerà a quelli carnali”. Per tradizione, l’aggettivo “spirituale” si riferisce a tutto quello che concerne la dimensione non materiale dell’uomo, innanzitutto la dimensione della mente, che comprende non soltanto la ragione ma anche il sentimento, il desiderio, la volontà, la percezione, la memoria, la coscienza e infine anche l’inconscio. Ebbene, lo scopo dell’arte è proprio quello di dilettare la mente. Siccome solo l’uomo, fra tutte le creature, ha una mente, solo l’uomo fa arte. Quindi, la capacità di produrre e godere arte è ciò che distingue l’uomo dall’animale.
Quindi, togliendo l’arte, l’uomo ritorna animale. Ed è proprio quello che sta succedendo, almeno a giudicare ai termini più digitati sui motori di ricerca. Per farla breve, in quest’era che si suole denominare “post-moderna” è successo proprio quello di cui san Tommaso metteva in guardia: privati troppo a lungo di diletti spirituali, gli uomini si sono volti in massa ai diletti carnali. Mi riferisco al fatto che oggi il settore economico più fiorente a livello mondiale è quello della prostituzione e dei prodotti pornografici. Se fino a ieri i politici, per paura di apparire “bigotti”, hanno fatto finta di niente, oggi cominciano, sia pure timidamente, ad ammettere che forse sarebbe opportuno cominciare ad erigere qualche barriera per contenere, almeno contenere, lo tsunami colossale di liquami pornografici che sta inondando l’intero orbe terracqueo. Il governo islandese ha annunciato due mesi fa che metterà qualche blando divieto alla diffusione di pornografia via internet, e subito è stato accusato di bigotteria e oscurantismo. Onore al governo islandese. Tuttavia, i divieti e le sanzioni non bastano: per fermare lo tsunami pornografico occorre una vasta operazione culturale, incentrata sulla educazione estetica.
A dire il vero la pornografia è entrata da tempo come un virus, anche nell’arte stessa o, meglio, in ciò che gli somiglia. Per averne un’idea, pensate a un film che hanno visto tutti: Arancia meccanica di Stanley Kubrik. In una celebre scena, il teppista Alex (Malcolm McDowell) si introduce nella casa di una vecchia signora. Quando tocca un curioso oggetto poggiato sopra un mobile, la vecchia signora protesta: “Fermo non toccare: è una importante opera d’arte!” E il teppista esclama “vecchia porcona!”, che la dice tutta. Stanley Kubrick è stato davvero profetico: infatti oggi, a quaranta anni dall’uscita del film, nelle grosse esposizioni internazionali d’arte (arte?) ne potete trovare all’ingrosso di “importanti opere d’arte” in tutto simili a quella. Di tutti gli infiniti aspetti della vita umana, sembra che agli “artisti” più quotati a livello internazionale interessino solo il sesso, la morte e poco altro. Il problema è che non si sforzano neppure andare al fondo, di scandagliare il mistero, di cercare il senso recondito di questi aspetti fondamentali della vita umana. Anzi, si direbbe proprio che si sforzino di svuotarli di ogni senso, di volgarizzarli, di dissacrarli (è stato Roger Scruton a parlare di “dissacrazione” come carattere fondamentale dell’arte contemporanea). Guardano al sesso e alla morte non con sguardo di poeti ma con sguardo di depravati, sadici e perfino necrofili. Alcuni esempi: calchi in gesso di seni, falli e vagine umane (opere di Jamie McCartney), scheletri umani intenti a pratiche sodomitiche (opere di Jean-Marc Laroche), un busto umano composto di falli umani di plastica (opera di Tracey Emin), una mucca fatta a fette e uno squalo imbalsamato (opere di Damin Hirst), veri cadaveri umani scuoiati e plastificati (opere di Gunther Von Hagens). Gli psichiatri sanno bene che la pornografia confina con la scatologia. Non a caso, a volte gli artisti diventano addirittura simili a bambini che giocano con i loro escrementi (molto esplicite a questo proposito alcune performance di Paul McCarthy).
Ho detto che agli artisti mainstream interessa solo il sesso e la morte. Dimenticavo che sono morbosamente interessati anche ad un’altra cosa: i soldi. In effetti, le loro opere fruttano parecchio al “botteghino” dei musei e sono oggetto di colossali speculazioni finanziarie. Ebbene, il sesso e la morte c’entrano molto anche con i soldi. I produttori cinematografici sanno che, per vendere bene un film, bisogna riempirlo di sesso, violenza e cadaveri. Ebbene, gli artisti hanno imparato la lezione impartita dai produttori cinematografici e la applicano alla loro arte. Dal momento che va a punzecchiare direttamente la sfera degli istinti, scavalcando ogni barriera razionale, la rappresentazione del sesso e della violenza è una potente spezia psicologica. Più di recente, gli “artisti” hanno cominciato a fare largo uso di un’altra spezia: la provocazione. Per attirare l’attenzione del pubblico non c’è nulla di meglio che provocare scandalo, disgusto shock, ribrezzo o addirittura conati di vomito? Come si dice, che se ne parli male purché se ne parli. Oggi dire che un film “ha fatto scandalo” equivale ad elogiarlo e fargli una pubblicità gratuita. La provocazione si tinge spesso e volentieri di blasfemia. Pochi esempi: un crocifisso immerso nell’urina (opera di Gilbert e& George) una scultura che rappresenta Hitler in preghiera (opera di Maurizio Cattelan), una rana crocifissa (opera di Martin Kippenberger).
Quella che intasa le grosse esposizioni internazionali d’arte, sempre più simili a latrine, chiamatela come volete, ma non chiamatela arte. Infatti, fa tutto fuorché procurare diletti spirituali. E se non provoca diletti spirituali, non è arte. Oggi sembra realizzarsi la profezia di Hegel sulla “morte dell’arte”. Perché è morta? Quali le cause del decesso? Queste cause sono molteplici, ma tutte queste cause hanno a loro volta una unica causa, che è l’apostasia. Impossibile esaminare in questa sede tutte queste cause: lo farò in un saggio che sto scrivendo. Adesso esaminerò in maniera sintetica solo la causa principale: la negazione del valore oggettivo della bellezza.
La causa principale morte dell’arte è la morte della bellezza. Infatti la bellezza non è un accessorio, ma è l’elemento essenziale dell’arte, tanto è vero che una volta le arti si chiamavano “belle arti”. Anche noi istintivamente di una pittura o di un film diciamo “bello” oppure “brutto”. Per noi come per i più autorevoli critici, un’opera può dirsi “opera d’arte” solo se è bella. E per un meraviglioso paradosso, può essere bella anche se ha a tema il dolore e la morte (si pensi a certi dipinti che rappresentano la passione di Cristo). Solo di recente la filosofia ha decretato apertamente la morte della bellezza. Ma la lunga agonia del concetto di bellezza è iniziata almeno due secoli fa, al tempo dei Lumi. Paradossalmente, fu proprio allora che nacque una filosofia incaricata di definire questo concetto: la filosofia estetica. I contributi più importanti alla filosofia estetica li hanno dati David Hume, Edmund Burke, Alexander Baumgarten ed Emmanuel Kant. Per tutti loro, la bellezza non esisterebbe negli oggetti che percepiamo, ma solo nella nostra mente. In altri termini, la bellezza non sarebbe una qualità degli oggetti belli, ma un sentimento suscitato in noi da questi oggetti. Per gli empiristi David Hume ed Edmund Burke la bellezza coinciderebbe precisamente con un “sentimento di piacere” causato in noi da certe forme, non con le forme stesse che lo causano. Burke ritiene che questo sentimento sia universale, mentre Hume ritiene che sia individuale. In sostanza, per Burke a tutti gli uomini, in ragione della comune struttura fisiologica, piacerebbero le medesime forme, mentre secondo Hume le medesime forme non piacerebbero a tutti gli uomini, ognuno dei quali avrebbe suoi personali e incomunicabili gusti. Hume tuttavia cerca di evitare il relativismo estetico assoluto, sostenendo che certe persone avrebbero più “buon gusto” delle altre. Se una cosa piace ad una persona di buon gusto, suggerisce Hume, puoi stare certo che è veramente bella. A questo punto, Hume cade nel ragionamento circolare: è bello ciò che piace alle persone di buon gusto, hanno buon gusto le persone a cui piace ciò che è bello. Emmanuel Kant ha il merito di avere superato l’edonismo superficiale dei due empiristi inglesi. Egli riprende da loro l’idea che la bellezza coincida col “sentimento di piacere”, ma questo sentimento lo distingue dal “piacevole”: bello non è “ciò che piace ai sensi nella sensazione” (che è appunto il piacevole) ma ciò che diletta la mente provocando “il libero gioco” di immaginazione e intelletto.
Ma in ogni caso Kant rende definitivo il soggettivismo estetico. Dopo Kant i principali teorici di estetica si sono preoccupati quasi esclusivamente di definire la natura e lo scopo dell’arte, tralasciando di definire la bellezza. Senza dubbio, accettano la definizione di bellezza fornita da Kant. Ma il fatto che gli stili e i gusti varino in continuazione da un luogo all’altro e da un’epoca all’altra sembra indicare che non tutti gli uomini condividono la medesima idea\sentimento di bellezza (in realtà non è così, come vedremo). Era dunque inevitabile che, un passo dopo l’altro, si arrivasse a negare anche l’esistenza di un’unica idea\sentimento di bellezza e che si affermasse il relativismo assoluto dei gusti. Partita da Hume, la filosofia estetica torna a Hume e anzi lo radicalizza. Se Hume ammetteva ancora, seppure incoerentemente, l’esistenza un “buon gusto”, adesso non si ammette neppure quello: “De gustibus non est disputandum”. Se i gusti sono tanti e nessuno è più vero dell’altro, al massimo si potrà fare una statistica dei gusti, e si potrà stabilire che l’opera che piace a più persone vale di più di quella che piace a meno persone. Se dunque alla gente piace vedere tutte le opere macabro-pornografiche di cui sopra, allora dal punto di vista relativista quelle opere sono arte, e chi lo nega è un bigotto oscurantista.
Ma adesso vediamo dove gli illuministi hanno sbagliato. Come abbiamo visto, la filosofia estetica settecentesca concepisce la bellezza come un sentimento o un’idea che non esiste al di fuori dell’uomo. Invece, prima dell’illuminismo nessuno aveva difficoltà a riconoscere che la bellezza esiste nelle cose come qualità oggettiva. Gli illuministi non sbagliavano affatto quando dicevano che noi tutti abbiamo la medesima idea\sentimento di bellezza. Ma il fatto che noi abbiamo questa idea\sentimento non significa affatto che la bellezza esista solo in questa idea\sentimento. Pensiamo alla matematica e alla geometria: esse sono vere sia nel nostro pensiero che nella realtà. Due più due fa quattro e l’ipotenusa è uguale alla radice quadrata della somma dei due cateti sia nel pensiero che nella realtà. Perché invece la bellezza dovrebbe esistere solo nel nostro pensiero?
Una volta ammesso che la bellezza esiste anche al di fuori della nostra mente, non ci resta che descriverla. Proviamo a paragonarla ad un colore, ad esempio al rosso. Non esistono soltanto le cose rosse ma anche il rosso, che è una certa gradazione delle onde luminose. E questa gradazione luminosa possiamo in qualche maniera isolarla dalle cose. Invece, la bellezza non è un fenomeno fisico e quindi non può essere isolata in provetta. Inoltre, è molto difficile da descrivere. Per noi è facile descrivere le singole cose belle, mentre è difficilissimo descrivere la bellezza stessa, intesa come qualità che accomuna tutte le cose belle. La varietà dei gusti e degli stili non dimostra che la bellezza è relativa, casomai dimostra che è sconfinata: la bellezza può manifestarsi in talmente tante forme che non si è mai finito di trovarle tutte. Descrivere la bellezza non significa dunque scegliere alcune forme belle a discapito di altre ma trovare gli elementi che hanno in comune le infinite forme belle. Ma a quanto pare, la bellezza è talmente misteriosa che nessuno è mai riuscito a trovare qualcosa come la formula chimica o matematica della bellezza. Al massimo, si è riusciti a stilare un lungo elenco di caratteristiche della bellezza: le principali sono, secondo tradizione, l’unità d’insieme e la proporzione fra le parti. Ma se è vero che tutte le forme belle sono unitarie e proporzionate, è altrettanto vero che non tutte le forme unitarie e proporzionate sono belle. Evidentemente, nella bellezza c’è una x misteriosa che sfugge al ragionamento. Per andare subito al sodo, quella x misteriosa ha a che fare col mistero stesso in senso teologico. La bellezza non è una cosa fisica, ma una “sostanza” metafisica. Di conseguenza, non può essere formulata in termini scientifici: può essere definita solo in termini metafisici e teologici. La formula definitiva della bellezza ce l’ha data San Tommaso d’Aquino: la bellezza è integrità (integritas) più proporzione (proportio) più “splendore del mistero” (claritas). Di questo “splendore del mistero” o “chiarità di una forma” possiamo dire soltanto, in maniera suggestiva e imprecisa, che è l’irruzione dell’infinito nella forma finita. Sì, la bellezza ha a che fare con Dio. La bellezza nella sua infinita estensione è attributo di Dio: è lo splendore del vero e del bene riuniti. Noi su questa terra vediamo riflessi infinitesimali della bellezza infinita.
Dunque non c’è arte senza bellezza e non c’è bellezza senza Dio. In altri termini, sembra che senza la fede sia impossibile fare arte bella. Gli intellettuali mainstream conducono da anni una jihad fanatica contro quel che resta del concetto di bellezza proprio perché hanno capito che non si può credere nella bellezza senza credere in Dio, e loro non vogliono crederci. Gli illuministi, ancora non avevano ripudiato la fede, almeno non del tutto: si dicevano deisti o agnostici. Perché avevano imprigionato la bellezza nei limiti della soggettività? Perché avevano intuito che la bellezza, lasciata libera, era pericolosa. La bellezza infatti conduce l’uomo fuori da sé stesso, verso il cielo. Essi credevano ancora in Dio, ma volevano crederci “moderatamente”, senza troppo entusiasmo. Insomma, essi hanno allontanato la bellezza da Dio, senza ancora negare Dio. Poi si è pensato che si potesse fare completamente a meno di Dio e tenersi solo la bellezza. Oggi si pensa di fare a meno anche della bellezza per tenersi solo l’arte. Ma l’arte, privata della bellezza, si auto nega. Quindi, ormai è come se fossimo alla resa dei conti: o ritorniamo alla fede o dobbiamo semplicemente rinunciare all’arte e annegare nella pornografia. A voi la scelta.