Tesori in frantumi

Una voce dall'abisso

LA CRISI HA UN COLPEVOLE: JOHN MAYNARD KEYNES. Sono state le sue idee luciferine a scatenare il cancro del debito pubblico e delle bolle speculative. Se avessimo dato retta a Friedrich von Hayek, adesso la nostra economia non sarebbe malata terminale. Ma forse siamo ancora in tempo per salvarla…

E’ inutile, in questo periodo non riesco a pensare ad altro che all’economia. In tutti i talk show – non me ne perdo uno – si parla quasi esclusivamente di spread, bot, tassi d’interesse, costo del denaro, bolle speculative e tasse, evasione fiscale… . Per festeggiare la festa del lavoro, ho pensato di scrivere un bel post sull’economia. Cercherò di spiegare nella maniera più semplice possibile tutti i principali temi del dibattito fra keynesiani e hayakiani. Io sono spudoratamente di parte: odio profondamente Keynes e amo alla follia Hayek. A mio parere, oggi il keynesismo è il cavallo di Troia del marxismo. Gli ex marxisti, vergognandosi di dirsi marxisti, si dicono keynesiani. Per loro il keynesismo è solo la “teoria di transizione” verso il marxismo. “Una volta che la gente avrà accettato il socialismo moderato di Keynes”, essi pensano, “sarà facile indurla ad accettare il socialismo reale”. 

Questo post è un bel bignamino di economia in 30.000 caratteri. In esso, troverete l’essenziale per capire la crisi.

Prima di iniziare, imparate un po’ di economia al ritmo di rap:

[http://www.youtube.com/watch?v=5Y1anc4B7iA]

[http://www.youtube.com/watch?v=jnnwT82JpnQ&feature=plcp]

I) Keynes: il risparmio fa ammalare l’economia, il consumo la cura

La terribile depressione scatenata dalla crisi finanziaria del 1929 spinse gli economisti a cercare la causa delle crisi economiche. Il brillante economista John Maynard Keynes sembrava averla trovata: la causa principale se non unica delle depressioni economiche sarebbe la riduzione dei consumi. In effetti, nei tempi di crisi la gente non compra, le aziende non vendono e quindi licenziano e chiudono. Perché la gente smette di comprare? Secondo Keynes la gente in tempi di crisi di soldi ne avrebbe meno rispetto a prima ma ne avrebbe comunque a sufficienza, solo che per delle oscure ragioni, in larga parte psicologiche, preferirebbe imbottirci i materassi piuttosto che spenderli o investirli. In poche parole, la gente iniziaerebbe a risparmiare troppo, sottraendo liquidi all’economia reale. L’economista inglese sottolineava che non vi è alcuna garanzia che i soldi risparmiati da un privato cittadino «vengano destinati alla creazione di nuovo capitale da parte di imprese pubbliche o private».

Dunque, secondo K. per rianimare una economia depressa c’è una sola cosa da fare: riattivare circolazione del denaro. Bene, ma chi la riattiverà? Ma naturalmente lo stato! Noto subito che, invitando lo stato ad intervenire in economia, Keynes si rivela essere un socialista tourt court. E noto che il passo da un socialismo più o meno ammantato di democrazia al marxismo autoritario è breve. Secondo K., per riattivare la circolazione del denaro lo stato dovrebbe in primo luogo tagliare il costo del denaro e in secondo luogo incrementare la spesa pubblica. Quando il costo del denaro diminuisce, argomenta Keynes, i soggetti economici sono più inclini ad investire denaro in attività più o meno produttive, facendo diminuire la disoccupazione. Se la riduzione del costo del denaro non bastasse a stimolare la crescita dell’occupazione, lo stato dovrebbe cominciare a creare il maggior numero possibile di posti di lavoro nel settore pubblico. In sostanza, Keynes vuole che lo spazio lasciato vuoto dagli investimenti privati sia immeditamente riempito dagli investimenti pubblici. Alla fine della fiera, l’azione congiunta degli investimenti privati e degli investimenti pubblici dovrebbe garantire maggiore occupazione. Ma come abbiamo visto, per Keynes più degli investimenti contano i consumi. Dal suo punto di vista, non importa che i posti di lavoro pubblici siano veramente utili a qualcosa: quello che importa è che i dipendenti pubblici abbiano abbastanza soldi da spendere. Al limite, si potrebbe pagare la gente per scavare le buche e per ricoprirle. L’importante è che, dopo avere scavato e ricoperto buche, la gente non vada a nascondere i soldi nei materassi ma li spenda tutti e subito. Se infatti la gente comincia a spendere di più, le aziende guadagnano di più e quindi possono espandersi e creare nuova occupazione. E dove si prenderanno i soldi da dare a quelli che scavano le buche? Naturalmente, dalle tasche di quei taccagni dei contribuenti, che invece di spendere risparmiamo. Ma i soldi dei contribuenti non bastano: K. vuole che lo stato spenda più di quello che incassa. In altri termini, K. vuole che lo stato si indebiti. E i debiti chi li pagherà? Niente paura, dice Keynes: quando l’economia si sarà perfettamente ripresa, saremo tutti talmente ricchi che potremo ripagare i debiti i oggi senza fatica. Insomma, per Keynes il debito avrebbe avuto addirittura delle proprietà magiche. Oggi ti indebiti e domani sei più ricco! Non è un sogno? A svegliare la gente dal sogno, a farle capire che la magia non esiste, ci penserà Friedrich von Hayek.

II) Hayek: Il risparmio non è la malattia ma la cura

Hayek era d’accordo con Keynes che troppo risparmio (connesso al pericolo della “tesaurizzazione”: un aumento generalizzato della domanda di moneta al quale non corrisponda una crescita adeguata dell’offerta di moneta stessa) non giovasse all’economia. «Concordiamo sul fatto che accumulare il denaro, in liquidità o in saldi inattivi, produce effetti deflattivi. Nessuno pensa che la deflazione sia qualcosa di auspicabile». Ma differenza di K., H. distingueva nettamente fra consumi e investimenti, conferendo a questi ultimi una importanza molto maggiore. Per uscire dalla depressione economica, secondo H., bisognava incrementare non tanto i consumi quanto gli investimenti.

L’aumento generalizzato dei consumi a scapito dei risparmi può avere effetti positivi sull’economia solo sul breve periodo. E’ ovvio che se la gente spende di più le aziende guadagnano di più e quindi nell’immediato l’economia cresce. Ma sul lungo periodo la riduzione generalizzata dei risparmi ha effetti devastanti, dal momento che sono proprio i risparmi a finanziare le imprese. Se i privati sono troppo presi dall’ebbrezza dei consumi per mettere da parte qualcosa e depositarlo nelle banche, queste non hanno abbastanza soldi da prestare alle aziende. In conclusione, senza risparmi non ci sono investimenti. E senza investimenti, non c’è crescita sul lungo periodo.

In sintesi, Hayek ritiene che il risparmio privato sia la linfa vitale dell’economia. Tuttavia, c’è modo e modo di risparmiare. Nascondere i soldi in un materasso o in una cassaforte invece di investirli direttamente o indirettamente, tramite le banche, significa togliere linfa vitale all’economia. L’economia può rimanere in salute solo se i risparmi accumulati dai privati, invece di marcire nelle casseforti, si convertono costantemente in nuovi investimenti. Per questo, Hayek guardava con molto favore al mercato dei titoli mobiliari.

D’altra parte, non sembra che Keynes fosse davvero i convinto di quello che diceva. O vogliamo dire che predicava bene e razzolava male. In pubblico diceva peste e corna del risparmio, in privato accumulava in banca una fortuna valutabile nell’ordine di diversi milioni di dollari odierni.

Sottolineare l’importanza dei risparmi e degli investimenti non significa disconoscere l’importanza dei consumi. E’ chiaro che senza consumi non ci sono neppure investimenti. Se nessuno consumasse più nulla, che senso avrebbe investire nella produzione di qualcosa? E d’altra parte, chi potrebbe sopravvivere senza consumare nulla? E’ ovvio che risparmiare soltanto senza consumare nulla è pernicioso sia per la sopravvivenza fisica che per l’economia. Quindi, è il buon senso a suggerirci che dobbiamo trovare un equilibrio fra risparmio e consumo. Il tasso ottimale di risparmio (definito tasso di risparmio di regola aurea) deve mantenersi tra i due estremi del consumo eccessivo e del risparmio eccessivo. Per usare un linguaggio cristiano, dobbiamo evitare i due vizi uguali e contrari dell’avarizia e della prodigalità. C’è un legame profondo, disconosciuto dagli economisti modernisti, fra l’economia e la condotta morale degli individui.

III) Costo del denaro, mutui subprime, scoppio della bolla immobiliare, fallimenti a catena delle banche

Come abbiamo visto, secondo Keynes l’abbassamento del costo del denaro ossia dei tassi d’interesse avrebbe il potere di fare crescere l’economia. E no! L’abbassamento artificiale, fuori da ogni logica di mercato, dei tassi di interesse non fa crescere l’economia: fa crescere la speculazione. Gonfia colossali bolle che prima o poi scoppiano. Ce lo dice Hayek a ritmo di rap nel primo video (Fear the boom and the bust).

In Tutti gli errori di Keynes, perché gli Stati continuano a creare inflazione, bolle speculative e crisi finanziarie, Hunter Lewis dimostra che è stato proprio l’abbassamento eccessivo del costo del denaro in puro stile Keynes a scatenare negli Usa la tempesta di debiti, prestiti bancari non garantiti (subprime) e insolvenze. E quando le insolvenze sono diventate troppe, la bolla immobiliare è scoppiata e le banche sono fallite a catena.

Tutto è iniziato con i tristemente famosi mutui subprime. Lo scorso decennio negli Usa un gran numero di persone a basso reddito sono state convinte dalle banche, rese euforiche dai bassi tassi di interesse, a comprare immobili contraendo mutui subprime. L’improvvisa proliferazione di mutui subprime ha determinato un boom senza precedenti del mercato immobiliare: i prezzi delle case aumentavano perché la domanda di case superava costantemente l’offerta.

«Dal momento che Joe (il cliente a basso reddito n. d. r.) è al di sotto della soglia di garanzia – subprime, appunto -, perché la banca del suo paesino gli concede il mutuo? Lo fa perché la banca locale concede sì un mutuo a Joe ma trasferisce subito il rischio a qualcun altro: a una serie di grandi banche d’affari e altre istituzioni finanziarie, le quali acquistano il credito verso Joe, lo spezzettano, lo combinano con altri crediti e lo “cartolarizzano”, cioè lo trasformano in una serie di prodotti finanziari che mettono in vendita sui mercati internazionali. Questi prodotti diventano sempre più complicati – derivati, bond, swap -, così che chi li acquista a Shanghai, a Mosca o a Milano non si rende conto che in effetti sta comperando il credito di una banca americana verso Joe l’idraulico. Ma questo non gli interessa, perché il prodotto dà un alto reddito, magari cinque o dieci volte superiore rispetto al medio titolo di Stato: quindi, perché fare troppe domande? La creazione di questi “nuovi” strumenti finanziari è attribuita al giovane banchiere della First Boston Laurence D. “Larry” Fink, e il suo perfezionamento a due premi Nobel per l’economia, Myron Scholes e Robert C. Merton, i veri inventori del fondo speculativo (hedge fund) basato sui mutui, “geni” che trovano il modo di vendere debiti e guadagnarci.» (Massimo Introvigne)

Col mutuo subprime, la banca ci guadagna sia se il cliente paga sia se non paga. Se paga bene, se non paga meglio: la banca si tiene le rate già pagate e in più si prende la casa e la vende. Finché gli insolventi sono pochi, tutto va per il meglio. Ma quando gli insolventi cominciano a diventare troppi, le cose si mettono male. Nel 2007 gli insolventi diventano un milione e settecentomila. Il mercato non ce la fa ad assorbire un milione e settecentomila case pignorate e messe in vendita tutte insieme dalle banche. Queste ultime di  conseguenza perdono montagne di soldi. «La banca locale non può più pagare l’interesse alla banca d’affari che ha rilevato il suo credito,  e questa non può più pagare gli investitori che hanno comprato lo stesso credito attraverso gli strumenti creativi inventati dai premi Nobel. Così le banche d’affari – cioè quelle banche che, a differenza delle banche commerciali, non raccolgono depositi agli sportelli ma offrono servizi di consulenza e vendono e acquistano azioni e altri prodotti finanziari -, esposte per miliardi di dollari, nel 2008 cominciano a rischiare di fallire. I governi – negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e altrove – ne salvano alcune, ma il 15 settembre 2008 l’amministrazione del presidente George W. Bush lascia fallire una delle più grandi banche d’affari del mondo, la Lehman Brothers, probabilmente commettendo un errore. Una dopo l’altra, le banche d’affari di Wall Street spariscono o cambiano mestiere» (Massimo Introvigne). Il virus delle insolvenze passa dalle banche d’affari alle banche commerciali. Queste ultime sono costrette a limitare i prestiti alle imprese, che di conseguenza vanno in crisi e tagliano posti di lavoro. Una spirale perversa si estende rapidamente dagli Usa a tutto il mondo: aumenta la disoccupazione, le famiglie si impoveriscono, i consumi calano, le aziende guadagnano di meno e quindi aumenta ulteriormente la disoccupazione eccetera.

Negli ultimi anni di bolle ne sono state gonfiate e ne sono scoppiate molte in molte parti del mondo. Infatti, tutte le principali banche centrali del mondo hanno cercato di mantenere bassi i tassi d’interesse nel nome di Keynes. In paesi come Spagna, la Gran Breagna e l’Irlanda queste politiche monetarie hanno provocato bolle immobiliari simili a quella scoppiata negli Usa. Dove non hanno gonfiato bolle, hanno comunque danneggiato diversi settori dell’economia.

Per fermare questa epidemia di bolle e fallimenti, i governi hanno allentato i cordoni della borsa. Ma la cura a base di denaro pubblico è stata peggiore del male. Negli Usa i 700 miliardi di dollari spesi dai repubblicani per comprare asset degli istituti di credito in crisi e i 787 stanziati dal presidente democratico per far ripartire l’economia hanno il solo effetto di alzare il debito pubblico fino a renderlo insostenibile. Oltretutto, si rafforzano gli insani legami fra finanza e politica.

Esemplare da questo punto di vista il caso della Fannie Mae e della Freddie Mac, salvate dallo stato cn montagne di denaro pubblico. Il salvataggio di queste due società è stato esibito dai marxisti-keynesiani come prova del “fallimento del mercato” e “fine del neoliberismo”. In realtà, Fannie Mae e Freddie Mac avevano ben poco di liberale e liberista: si trattava di due aziende parastatali, con capitale privato, create, protette e usate come bancomat dal Partito Democratico. Le due aziende versavano nelle casse del Partito Democratico centinaia di milioni di dollari, ricevendone in cambio protezione ed aiuto. Numerosi esponenti del governo americano e del Congresso hanno sempre fatto di tutto per far credere agli investitori che le due aziende avessero una garanzia statale e che quindi acquistare il debito ed il capitale da loro emesso fosse conveniente. Nessuna azienda privata poteva competere Fannie & Freddie, che millantavano la protezione statale e applicavano tassi di interesse quasi governativi, estranei ad ogni logica di mercato.

IV) Spesa pubblica

Abbiamo visto che per Keynes la spesa pubblica era la soluzione di tutti i problemi. Hayek invece aveva capito per tempo che la spesa pubblica crea più problemi di quelli che sembra risolvere sul momento: «l’esistenza di un debito pubblico di grandi proporzioni impone attriti e ostacoli al riassestamento dell’economia che sono molto maggiori di quelli imposti dall’esistenza del debito privato». Quindi, la spesa pubblica non soltanto fa crescere il debito, preparando future recessioni, ma non funziona come “stimolo” dell’economia stessa. Infatti, il debito pubblico prima o poi deve essere pagato: indebitarsi oggi significa pagare più tasse domani. In previsione di tasse future, la gente non investe il risparmio ma lo tiene da parte. Quindi, la spesa pubblica non fa aumentare la spesa privata ma al contrario la scoraggia. Invece di continuare ad allargare il buco nero del debito, che attrae e distrugge i capitali, bisogna permettere ai capitali di circolare liberamente per il mondo. Hayek chiedeva infatti a gran voce l’abolizione immediata di tutte le politiche protezionistiche: è il momento di «abolire quelle restrizioni agli scambi e al libero movimento dei capitali».

Ma per capire che la spesa pubblica è sempre dannosa, non c’è bisogno di tanti ragionamenti: basta guardare al periodo della Grande Depressione.

Il governo degli Stati Uniti aveva cominciato ad aumentare la spesa pubblica ben prima che fosse dato alle stampe The General Theory of Employment, Interest and Money di John Maynard Keynes (1936). In effetti, Keynes ebbe successo proprio perché in un certo senso saltò sul carro del vincitore, fornendo una giustificazione teorica a delle politiche socialistiche già largamente accettate. A parte questo, se le ricette stataliste-keynesiane funzionassero davvero, avrebbero dovuto funzionare già entro il 1939. In realtà lo stesso ministro del tesoro nel 1939 dichiarò che l’aumento della spesa pubblica non aveva avuto effetti positivi di sorta:

«We have tried spending money. We are spending more than we have ever spent before and it does not work. And I have just one interest, and if I am wrong…somebody else can have my job. I want to see this country prosperous. I want to see people get a job. I want to see people get enough to eat. We have never made good on our promises… I say after eight years of this administration we have just as much unemployment as when we started… And an enormous debt to boot!» (Secretary of the Treasury, Henry Morgenthau

Non furono le poco utili o inutili opere pubbliche volute da Roosevelt a scatenare il boom post-bellico. In realtà, non furono neppure le spese militari. A differenza delle poco utili o inutili opere pubbliche del New Deal (si faceva prima a pagare la gente per scavare le buche e per ricoprirle) le bombe e i carri armati, purtroppo, erano utili a qualcosa. Se non si voleva finire a parlare tedesco da New York alle montagne rocciose e giapponese dalle montagne rocciose a Los Angeles (come nel romanzo di Philip Dick La svastica sul sole), bisognava assolutamente aumentare le spese militari. Tuttavia, Hayek fece notare che le spese militari, sebbene fossero tristemente “utili”, non avevano prodotto vera ricchezza: l’unica cosa che avevano prodotto era la piena occupazione. Metà della popolazione era arruolata e l’altra metà andava in fabbrica a produrre bombe e carri armati. Lavoravano tutti, ma con salari da fame.

L’unica maniera per estinguere il debito pubblico è tagliare la spesa pubblica. Anzi, tagliare è poco: bisognerebbe sopprimerla. Non potendo sopprimerla, possiamo accontentarci di dimezzarla. Perfino uno che si definisce keynesiano ha capito che la spesa pubblica improduttiva e parassitaria è più dannosa di una invasione di cavallette:

«La chiave di volta è capire che la spesa pubblica – come qualsiasi altra – ha senso ed è produttiva se soddisfa l’utilità dei soggetti che la attuano o per conto di cui è attuata (nel caso dello Stato, i contribuenti). Non è produttiva perché soddisfa l’utilità di chi riceve il denaro! Il denaro speso per lo stipendio di un dipendente pubblico che non produce utilità per i cittadini, è spreco. Domanda aggregata inefficace nella produzione di valore. Quegli stessi soldi, non prelevati da una tassazione eccessiva, avrebbero potuto essere disponibili per cittadini e imprese che li avrebbero spesi (od investiti) al posto dello Stato, ed avrebbero prodotto la medesima domanda aggregata, soddisfacendo però la loro utilità e creando quindi valore. Ovvio che questi dipendenti pubblici superflui siano scontenti, ma non possiamo lasciar loro prelevare a tempo indeterminato la ricchezza che la parte produttiva del paese produce a fronte di poco o nulla, perché oltre all’iniquità di ordine morale si crea l’effetto di disincentivare l’accumulazione dei capitali necessari per fare impresa e nel produrre ricchezza. Nè si può pensare che esista il diritto al parassitismo permanente.» (Andrea Benetton, I seguaci di Keynes: a volte ritornano).

V) Lo Spread

I governi che si sono succeduti in tutti i paesi occidentali dal dopoguerra ad oggi hanno costantemente allargato i buchi neri dei debiti pubblici, che alla fine si sono uniti generando un unico gigantesco buco nero che sta distruggendo l’economia occidentale. Invece di andarsi a nascondere per la vergogna, i keynesiani ossia i marxisti in incognito cercano di convincerci che l’unica cura per la malattia della crisi è… la spesa pubblica. Non so se avete capito: essi vorrebbero curare una malattia provocata dal debito con altro debito. Sarebbe come curare l’alcolismo con l’alcol, la dipendenza da eroina con l’eroina, la peste con la peste. Davvero geniale. Ci propinano la solita favola della buona notte: l’aumento della spesa pubblica farà ripartire l’economia così saremo tutti più ricchi e avremo anche i soldi per pagare i debiti di oggi… Credetemi, si fa prima a credere nella fatina di Cenerentola. Come abbiamo visto, la spesa pubblica non ha mai fatto ripartire nessuna economia a memoria d’uomo. Peggio ancora, neanche se la facesse davvero ripartire sarebbe in grado di annientare il cancro in metastasi del debito. Già oggi il debito cresce a un tasso molto superiore a quello di crescita.

E veniamo a quel mostro chiamato spread. Lo stato ha un problema: deve convincere gli investitori a investire in titoli del debito pubblico. Ma gli investitori non sono fessi: sanno bene che, se il debito cresce più dell’economia, lo stato non sarà mai in grado di pagare i creditori. Sanno bene che comprare i titoli del debito pubblico è come comprare carta straccia. Per convincerli, lo stato è costretto a promettere loro un alto rendimento: “comprate i titoli, domani vi frutteranno molto più di quanto li avete pagati oggi”. Ma a furia di promesse, i tassi d’interesse (lo spread) aumentano, la spesa d’interessi aumenta e quindi aumenta anche in maniera esponenziale il divario fra tasso di crescita economica e tasso d’interesse sul debito. Non c’è mai fine al peggio.

Ecco il peggio. Normalmente, voi siete disposti a prestare del denaro a qualcuno solo se siete certi che qual qualcuno è in grado di farli fruttare o almeno di non distruggerli: “Io ti do dieci solo se tu mi garantisci che me ne restituirai  undici o, male che vada, di nuovo dieci”. Ebbene, i governi non sanno fare fruttare il denaro, perché tutte le industrie e le aziende di stato sono poco efficienti nella miglior delle ipotesi . Quindi, quando un creditore presta denaro allo stato, è sicuro che quel denaro non sarà utilizzato bene.  Per non farlo scappare a gambe levate, il governo deve promettere al creditore tassi interessanti. Ma adesso il governo prende in prestito denaro non più per finanziare industrie e aziende poco efficienti, ma solo ed esclusivamente per coprire un deficit di bilancio. In parole povere, sta distruggendo capitale senza investirlo. E poiché il capitale viene distrutto, per pagare gli interessi ai creditori lo stato deve contrarre ulteriori debiti. E’ peggio della bomba atomica. Infatti, a forza di pagare i debiti con altri debiti lo stato distrugge i risparmi di una nazione e impoverisce tutti. Mentendo e sapendo di mentire, lo stato dice ai risparmiatori: non preoccupatevi per i vostri risparmi, domani, quando ci sarà la ripresa economica, ve li restituirò. Bugiardo. Infatti, distruggere i risparmi significa impedire nuovi investimenti e di conseguenza impedire la ripresa. Gli imprenditori si suicidano e i keynesiani, invece di fare pubblica mea culpa coprendosi la testa di cenere, cianciano di abbassare ulteriormente il costo del denaro.

Ormai siamo già in fondo all’abisso della disperazione economica. Se in Francia vince quel marxista-keynesiano di Hollande, allora cominceremo a scavare il fondo dell’abisso. Hollande infatti chiede, manco a dirlo, di attuare politiche per la crescita idi stampo keynesiano tradizionale. Ossia, lui vorrebbe più spesa pubblica e più debito. E quando la metastasi del debito sarà all’ultimo stadio, andrà col cappello in mano dalla BCE e chiedere di fare quantitative easing (stampare soldi per comprare il debito). E così saremo inondati da carta straccia a forma di soldi e inizierà la festa dell’inflazione. Ma i tedeschi non sono così fessi: sanno ben che aumentare l’inflazione  significa fare perdere valore ai soldi veri che essi hanno accumulato col sudore della loro fronte. Ed guardate che hanno ragione da vendere. Quindi usciranno dall’euro sbattendo la porta e l’esperimento della moneta europea sarà concluso. This is the end.

VI) Il miraggio della tripla A

I tedeschi stanno un po’ meglio degli altri. Ma dallo stare un po’ meglio di un malato grave allo stare bene ce ne corre. Anche la Germania, infatti, è divorata dal cancro del debito. Certo, a differenza degli altri è in grado di tenere questo cancro sotto controllo. Ma dal tenere un cancro sotto controllo al guarirne ce ne corre. Tutti gli stati occidentali sono oberati dai debiti, tutti sono destinati a perdere la tripla A. Tutti, anche la Germania. E’ solo questione di tempo.

Il debito tedesco si prevede che scenderà a causa della condotta virtuosa dei tedeschi: era dell’81% nel 2012 e sarà del 79,8% nel 2013. Ma tutta la virtù teutone non basta. Infatti, il debito tedesco è più alto di quello spagnolo. Come ho detto è solo questione di tempo. Il 5 dicembre scorso, Standard and Poor’s aveva lanciato un avvertimento sulla possibilità di downgrade per 15 stati dell’Eurozona, tra cui la Germania. Per adesso, la Germania ha scampato il pericolo. Ma per quanto tempo ancora?

Nel 2012 il debito pubblico francese crescerà fino all’89,1%, nel 2013 raggiungerà l’89,3% del Pil. E infatti, il governo francese ha ricevuto la nota del declassamento del rating della Francia da Standard and Poor’s. Anche l’Austria è stata declassata e ha perso la tripla A. La Finlandia ela Slovacchia si appresterebbero a perderla. Lussemburgo e Paesi Bassi cominciano ad vere paura: Standard and Poor’s ha già lanciato loro degli avvertimenti.

 Ma il caso più significativo è quello della Spagna.

La Spagna è messa molto male. Il tasso di disoccupazione spagnolo è il doppio di quello della Grecia. Attualmente, supera il 20 per cento. Ossia, il numero dei disoccupati spagnoli è vicino ai 5 milioni.

Il debito pubblico spagnolo è molto più basso di quello dell’Italia, ma è in spaventosa crescita a causa delle scellerate politiche socialiste di Zapatero: era 36% nel 2007 ed è diventato 70,1% nel 2011. Si prevede che crescerà ancora.

Lascio che sia uno spagnolo a spiegare la situazione spagnola. Scrive Fernando Navarrete, Direttore del settore economico e di politica pubblica di FAES, la fondazione presieduta dall’ex premier José María Aznar:

«In Spagna, la speculazione immobiliare ha colpito così duramente perché è stata fomentata dalla politica fiscale: tra il 2004 ed il 2007 (nei primi 3 anni di governo della sinistra dopo gli 8 anni guidati dall’ex premier José Maria Aznar, ndr) la politica fiscale spagnola è stata straordinariamente espansiva visto il momento di prosperità economica. Non sto parlando di espansione fiscale – che tra l’altro si è dimostrata inefficace come misura anti-ciclica – ma bensì di una politica fiscale di aumento della spesa statale che ha alimentato le varie bolle. La Spagna, infatti, non è stata colpita solo da quella immobiliare ma anche quella avvenuta nel settore delle energie rinnovabili. In altre parole, siamo stati testimoni passivi di una dilatazione talmente grande della spesa pubblica (pompata dall’eccesso di domanda per gli aiuti e i finanziamenti statali) che ha provocato un deficit di competitività anche a livello globale. (…) Altrimenti, l’alternativa è quella che i posti si lavoro creati col sostegno dello stato diventano posti di lavoro insostenibili. E’ il caso del lavoro sub-prime, cioè quei lavori creati dalle imprese che vivono solo grazie alle sovvenzioni pubbliche le quali, in tempi di crisi, vengono a loro volta tagliate. Queste società spariscono in un batter d’occhio e senza possibilità di reagire soprattutto perché non rispondono agli stimoli del mercato ma a reazioni discrezionali dei decisori della politica economica.»

Conclusione

Quando nel 2008 il famoso scoppio della famosa bolla immobiliare ha fatto cadere le banche una dopo l’altra come i mattoncini del dominio, i marxisti-keynesiani hanno esultato: “Questa crisi dimostra il fallimento del neoliberismo”. Bugiardi, ipocriti, vigliacchi. Questa crisi non dimostra il fallimento del neoliberismo per la semplice ragione che il neoliberismo non c’è da nessuna parte. Questa crisi è stata causata dal keynesismo, fine del discorso. Riassunto della lezione di Keynes: per fare ripartire l’economia lo stato deve abbassare i tassi di interesse ed espandere la spesa pubblica. Ebbene, negli ultimi decenni – se si esclude la felice era di Reagan e della Thatcher –  lo stato ha seguito la lezione di Keynes. Abbiamo visto che tutto quel gonfiarsi e scoppiare rovinoso di bolle speculative è stato causato dal basso costo del denaro. Ed abbiamo visto che è stato il governo ad abbassare il costo del denaro. Quindi, completando il sillogismo, la crisi è stata causata dallo stato keynesiano, non dal mercato. Per rimediare alle bolle che scoppiavano, lo stato si è messo a salvare banche col denaro pubblico. E i marxisti-keynesiani hanno esultato: “Vedete, il mercato lasciato a se stesso fallisce e quindi ci vuole l’intervento dello stato”. Ancora un poco e a quelli gli cresce davvero il naso. Infatti, salvando banche lo stato non fa altro che cercare di rimediare, tardi e male, al male che lui stesso ha causato. Se il mercato fosse stato lasciato in pace, se il governo non lo avesse drogato con denaro a basso costo e iniezioni di denaro pubblico (sotto forma di stipendi di dipendenti pubblici e incentivi alle imprese fuori mercato), non si sarebbe mai gonfiata e non sarebbe mai scoppiata nessuna bolla. E come ho deto, il rimedio è peggiore del male: salvando banche fallite col denaro pubblico, lo stato manda in metastasi il cancro del debito pubblico. E così inizia la soap opera dello spred e della tripla A. Ma quando dicono che sono stati i salvataggi a causare il debito, i marxisti keynesiani mentono sapendo di mentire. Infatti, il cancro del debito pubblico continuava ad estendersi già da molto prima del 2007. I salvataggi sono stati al massimo la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

A questo punto che fare? L’unico antidoto al veleno del keynesismo  si chiama LIBERISMO. Solo le ricette liberiste potranno guarire l’economia dalla malattia mortale scatenata dal keynesismo.

E il governo tecnico, che fa? Il signor Mario Monti ha un obiettivo: il pareggio di bilancio.

Dal momento che mira al pareggio di bilancio e cerca di impedire con ogni mezzo che il debito cresca ulteriormente, Mario Monti non è un keynesiano,

Ma dal non essere keynesiano all’essere liberista ce ne corre.

Non basta liberalizzare poco e male il mercato del lavoro e colpire gli interessi di qualche corporazione per essere liberisti.

Per essere liberisti, bisogna fare due cose:

1) TAGLIARE LA SPESA PUBBLICA

2) TAGLIARE LE TASSE

Il di più viene dal demonio

Se Monti si decidesse a bloccare il flusso di soldi che esce dalle tasche della gente che produce e finisce nelle tasche dei fannulloni di stato che aspettano il 27 del mese nei ministeri romani e nelle altre sprecone e inefficientissime aziende di stato, ossia se si decidesse finalmente a dimezzare o più che dimezzare la spesa pubblica, potrebbe raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio senza aumentare le tasse e, quindi, senza produrre recessione.

Le tasse sono un crimine contro l’umanità.

Impoveriscono i poveri, istigano gli imprenditori al suicidio.

Gli impreditori si suicidano perché il fisco dissangua le loro aziende. In altri termini, si suicidano perché non ce la fanno più a pagare il pizzo mafioso ai fannulloni di stato.

Questi ultimi meritano una sola cosa: il licenziamento.

Il giorno in cui tutti i dipendenti pubblici usciranno dalle sedi delle aziende pubbliche con le scatole di cartone in mano e aprirano finalmente le pagine degli annunci per cercare un lavoro vero ossia produttivo ossia un lavoro nel settore privato – perché solo nel settore privato si lavora sul serio –  sarà l’inizio di una nuova era di prosperità.

In attesa di quest’era, consoliamoci pensano al boom economico italiano degli anni Cinquanta. Allora, la macchina dell’Italia poté correre a duecento all’ora perché un vero liberale l’aveva aggiustata. Si chiamava Luigi Einaudi. Egli lo ripeteva sempre: il keynesismo è il male assoluto. Impariamo a memoria la sua lezione.

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7 pensieri su “LA CRISI HA UN COLPEVOLE: JOHN MAYNARD KEYNES. Sono state le sue idee luciferine a scatenare il cancro del debito pubblico e delle bolle speculative. Se avessimo dato retta a Friedrich von Hayek, adesso la nostra economia non sarebbe malata terminale. Ma forse siamo ancora in tempo per salvarla…

  1. Un’unica inesattezza, questa “Perfino uno che si definisce keynesiano”. Di solito non mi definisco, e quello poche volte che è necessario categorizzare il mio pensiero allora direi un Austriaco, più vicino ad Hayek che a De Soto. Il fatto che “difenda” nell’articolo originale Keynes è perchè sotto quel nome si stanno facendo passare anche molte porcherie che per onestà intellettuale non possono essere attribuite a lui. Gente che strombazza in televisione definendosi keynesiano senza sapere cosa sta dicendo e che non ha mai letto nulla in merito.
    Per quanto non si possa essere d’accordo con Keynes dobbiamo ricordarci che lui era un economista. Ha cercato di comprendere la realtà, facendo dei modelli, che alla fine hanno dimostrato non essere corretti. Ma quello che vediamo è ben oltre quei modelli. Si tratta di gente che usa il mantra spesa pubblica per succhiare la ricchezza dagli altri occupando lo stato a tale scopo.

    • La ringrazio molto per la precisazione. Colpa mia che non avevo letto bene l’articolo, avevo capito che lei difendeva Keynes a priori. Anch’io nel mio piccolo sono austriacante e hayakiana, e tuttavia averso profondamente Adam Smith, come ho spiegato in un articolo publicato su Tempi (http://www.tempi.it/lunica-soluzione-alla-crisi-dimezzare-le-tasse-e-far-lavorare-le-cicale). Visto che lei di economia ne capisce sicuramente più di me, che sono una miserabile laureata in storia del’arte, vorrei farle una domanda che concerne l’opposizione fra la visione della scuola austriaca e la visione della scuola di Chicago. Dal poco che ho capito, Milton Friedman si oppose duramente a von Hayek per quanto riguarda il ruolo della Fed. Friedman credeva che la grande Depressione fosse stata causata dalla diminuzione della quantità di moneta sul mercato, e che quindi se la Fed avesse stampato più carta moneta la depressione sarebbe durata di meno. Hayek invece pensava che i veri capitali potessero derivare solo di veri risparmi. A suo parere, Friedman aveva torto oppure aveva un po’ di ragione? E se si, perché? Più in generale, a suo parere il crollo di Wall Street del 1929 fu effetto del “laissez faire” oppure di scellerate politiche dello stato? Dal momento che il 2008 è stato una specie di nuovo 1929, sarebbe utile a tutti cpire che cosa sucesse esattamente allora. La storia è maestra di vita.
      Saluti.

      • A mio parere la lettura che si avvicina di più a dare una spiegazione alla complessità dei fatti del ’29 è quella di M.Rothbard in America’s Great Depression http://www.mises.org/rothbard/agd/contents.asp
        che poi è coerente con il pensiero di Hayek sull’argomento e non con quello di Friedman.

        Troverà molte analogie nel capitolo 4 con la politiche della FED degli ultimi 15 anni, per quanto riguarda una spiegazione dell’innesco della crisi attuale può trovare un mio articolo qui http://www.teapartyitalia.it/index.php/articolo/le-cause-della-crisi tratto liberamente da “Meltdown” di Thomas E. Woods Jr che se vuole approfondire le consiglio senz’altro di leggere.

        Poi l’evoluzione europea della crisi ha secondo me tratti particolari. Infatti la politica monetaria espansionistica ha raggiunto il culmine in sincronia con una crisi di solvenza degli stati nazionali. Le due crisi si sono fuse in una miscela micidiale, per cui le banche centrali sono obbligate a fare questa politica monetaria dall’esclusiva necessità di tenere bassi i rendimenti dei titoli di stato.

        Sarà giocoforza fare debasement della moneta in una situazione come quella attuale. Anche solo rallentare questa tendenza potrebbe mandare in default qualche paese della perifieria Euro. Difficile azzardarsi in previsioni se si salvano gli stati ci perdono i creditori in senso generale colpiti dall’inflazione. Se saltano alcuni stati ci perdono alcuni creditori in particolare.
        Se vuoi sapere la mia preferenza è per non inflazionare e fare fallire chi deve fallire. E’ una questione di non premiare chi ha fatto azzardo morale. Chi ha sbagliato paga. Il capitalismo funziona così. Se invece spostiamo il costo dei fallimenti sui contribuenti o sugli investitori responsabili, siamo in un altro sistema. Un sistema in cui qualcuno rischia, poi va dal suo amico politico e si fa salvare le chiappe.

      • Grazie, proverò a leggere Rothbard in lingua originale, credo che non sia disponibile in traduzione italiana. Comunque, in futuro dirò anche cosa penso esattamente di Rothbard. Leggerò immediatamente anche il suo articolo.
        Applaudo e sottoscrivo questa affermazione:

        “Se vuoi sapere la mia preferenza è per non inflazionare e fare fallire chi deve fallire. E’ una questione di non premiare chi ha fatto azzardo morale. Chi ha sbagliato paga. Il capitalismo funziona così. Se invece spostiamo il costo dei fallimenti sui contribuenti o sugli investitori responsabili, siamo in un altro sistema. Un sistema in cui qualcuno rischia, poi va dal suo amico politico e si fa salvare le chiappe”.

        Questo è il cuore del problema: in economia chi rompe paga. Più in generale, l’economia deve tornare a legarsi alla morale e, per chi ci crede, alla teologia. Credo che san Tommaso d’Aquino e i tomisti avessero già detto tutto quello che c’è da dire sull’economia e sulla politica. Mi è stato assicurato che anche Rothbard alla fine della vita si era messo a studiare san Tommaso.

  2. questo testo è paradossale perché critica Keynes ma poi fa una analisi del tutto keynesiana della crisi dell’occidente. Cioè vede l’occidente come un mercato chiuso su se stesso. Non considera che dal 2001, ogni 30 secondi viene caricato un container da Shanghai in destinazione dell’occidente, questo 24 ore su 24 e tutto l’anno. In cambio arrivano centinaia di miliardi di euro nelle casse delle banche cinesi. La crisi finanziaria dei subprime arriva nel 2008, ma le aziende occidentali sono andate in crisi dal 2002 al 2004. Il mercato cinese doveva essere una grande opportunità, invece i cinesi hanno fatto di tutto per impedire alle aziende di entrare sul loro mercato. I bassi tassi d’interesse applicati dal 2001 per rilanciare l’economia non ha fatto altro che spostare i consumi abituali verso gli investimenti immobiliari. I produttori si sono trovati con una clientela con un potere d’acquisto molto ridotto perché tutti erano impegnati a pagare i mutui. Le merci a bassissimo costo proveniente dalla Cina hanno sostituito le produzioni di livello medio/alte prodotte in occidente. Per salvare la pelle molti produttori sono stati costretti a cedere le produzioni alle aziende cinesi e si sono rassegnati a fare i commercianti di prodotti cinesi con il marchio europeo. Nel frattempo si doveva fare fuori i risparmi dei pensionati. In occidente si è programmato di incentivare i fondi comuni, le “radio 24” a tappeto incoraggiavano ad investire in borsa in vista della prossima bidonata regolarmente avvenuta nel 2008.

    • Questo testo non è per nulla keynesiano e non è per nulla paradossale, se non per chi vuole vedere paradossi dove non ce ne sono.
      In primo lugo, l’articolo era già un po’ troppo lungo per esaminare anche la questione della globalizzazione. Il tema dell’articolo è il cancro del debito e il conseguente massacro fiscale, fine. Dei nuovi problemi posti dalla globalizzazione economica, specialmente del problema della concorrenza più o meno sleale dei cinesi, ne avevo già accennato nell’articolo pubblicato poco sotto dal titolo IL CAPITALISMO NON PUO’ MORIRE. In buona sostanza, io non mi soffermo più di tanto sui problemi della globalizzazione per la semplice ragione che per me questi problemi quasi non esistono, sono del tutto marginali e destinati ad avere breve durata. Questi piccolissimi problemi appaiono giganteschi e mostruosi solo chi li guarda con gli occhiali di vecchie concezioni protezionistiche e vetero-nazionalistiche alla francese. Questi occhiali hanno rovinato la vista al colbertiano Giulio Tremonti, che ha smesso da tempo di essere liberale e adesso canta lodi del welfare state e spara sul “mercatismo”.
      Esaminiano brevemente il problema cinese.
      Proviamo a ragionare intermini di CAUSA ed EFFETTO. Lei in sostanza dice: 1) dal 2002 al 2004 la concorrenza cinese ha rovinato l’economia occidentale, 2) per rlanciare l’economia occidentale, gravemente ferita, sono stati abbassati i tassi di interesse, 3) i bassi tassi di interesse hanno gonfiato il mercato immobiliare, 4) impoverita da mutui, la gente compra cinese più di prima, 5) l’economia occidentale si deprime ulteriormente, scoppiano bolle e scoppia il debito. Insomma, dal suo punto di vista a monte della catena delle cause-causate (per parlare tomista) c’è la concorrenza dei cinesi ossia la globalizzazione. In altri termini, per lei e la concorrenza sleale dei cinesi (ma anche degli indiani, no?) è CAUSA mentre l crisi economica e il debito pubblico sono l’EFFETTO. Io invece inverto l’ordine fra causa ed effetto: l’invasione di merci cinesi è allo stesso tempo EFFETTO e CAUSA SECONDA mentre il debito pubblico ossia la spesa pubblica e l’oppressione fiscale sono la CAUSA PRIMA.
      Io guardo alla concorrenza sleale dei cinesi come ad un banale raffreddore. A noi il raffreddore non ci fa niente, perché abbiamo gli anticorpi, ma agli indios del sedicesimo secolo il raffreddore portava la morte, perché non avevano ancora sviluppato gli anticorpi. Ebbene, le penose carabattole cinesi sono per la nostra economia quello che il raffreddore era per gli indios. Ma il problema non è il raffreddore cinese: il problema è la totale mancanza di anticorpi da parte nostra. Infatti, un virus mostruoso ha ucciso uno dopo l’altro tutti i nostri anticorpi: il virus keynesiano della spesa pubblica crescente che si porta dietro una tassazione crescente. Come può un imprenditore italiano essere competitivo, se i prezzi delle sue pur pregitissime merci sono gonfiati a dismiura da tributi diretti (iva) e indiretti (fra oscene tasse sull’impresa e vergognosissime accise sui carburanti) al leviatano, che come un tossicodipendente ha bisogno di dosi sempre maggiori di droga fiscale per nutrire i suoi parassiti? E allo stesso tempo, un povero consumatore italiano, massacrato dal fisco, che si mangia più della metà del suo stipendio, come può comprare italiano? Quindi è chiaro che più il leviatano ci dissangua, più noi siamo costretti a comprare cinese. E VORREI SOTTOLINEARE CHE NON SONO I MUTUI AD IMPOVERIRCI: SONO LE TASSE. I MUTUI DIVENTANO UN PROBLEMA PROPRIO PERCHE’ LE TASSE CI LASCIANO POCHI SOLDI IN TASCA.
      Si potrebbe obiettare che dietro i bassissimi prezzi cinesi c’è la triste realtà della schiavitù. Certo, quello della schiavitù mascherata da lavoro dipendente in Cina è davvero un grosso problema. Ma da tutti i reportage giornalistici emerge che la schiavitù è destinata per forza di cose ad estinguersi, seppure lentamente: infatti, la gente in Cina sta sempre meglio, cresce una classe media che vuole consumare e non ci sta ad accontentarsi di salari da fame. Ed è proprio la crescita esponenziale di questa classe media che sta pure facendo saltare ogni misura protezionistica. Dieci anni fa le merci straniere non potevano entrare in Cina: adesso ci entrano eccome, a furor di popolo. Infatti, tutti i borghesi arricchiti della cina post-moderna non ci pensano neppure di comprare gli straccetti e le carabattole made in China: esigono ALTA MODA ITALIANA, MACCHINE DI LUSSO ITALIANE, VINI ITALIANI, CAFFE’ ITALIANO E TUTTI I PRODOTTI TIPICI DELLE REGIONI ITALIANE. Di recente, non so dove in cina è stato aperto un centro commerciale di super lusso i cui edifici sono riproduzioni fedeli di case veneziane del Cinquecento con tanto d ponticelli e canali artificiali. Quindi, alla fine della fiera sì: il mercato cinese e pure quello indiano (perché anche gli indiani arricchiti esigono merci italiane e francesi) ci offre davvero delle enormi opportunità. Solo che noi siamo talmente debilitati dal fisco, che ci mancano le forze per sfruttare tutti gli spazi che si stanno aprendo.

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