Tesori in frantumi

Una voce dall'abisso

Paolo Sorrentino vince il Golden Globe facendo la caricatura della Chiesa e dell’Italia

Articolo apparso sulla Bussola Quotidiana il 14 gennaio scorso.

UNA RICETTINA  ANTICLERICALE PER AVERE SUCCESSO

E’ ufficiale: La grande bellezza di Paolo Sorrentino è un film che piace molto sia al pubblico che alla critica internazionale. Infatti, domenica 12 gennaio, Paolo Sorrentino ha ricevuto un Golden Globe durante la 71ª edizione della cerimonia di premiazione dei Golden Globe, che ha avuto luogo al Beverly Hilton Hotel di Beverly Hills. Sebbene il mio parere non conti nulla, a mio avviso Sorrentino si merita in pieno non soltanto il Golden Globe ma anche l’Oscar per il migliore film straniero, ed è sempre più probabile che lo riceva. Se lo merita perché La grande bellezza non è affatto un capolavoro. I veri amanti del cinema sanno bene che è difficilissimo che un vero capolavoro degno di entrare nella storia del cinema possa vincere un Golden Globe o un Oscar. Per sincerarsene, basta dare una scorsa ai titoli insigniti dei suddetti premi negli ultimi cinquant’anni. Quanti di questi titoli hanno resistito alla prova del tempo? Quanti meritano l’appellativo di capolavori assoluti? Non molti. E quanti geni riconosciuti del cinema hanno potuto stringere una statuetta d’oro fra le mani? Per fare un solo esempio, il sommo Stanley Kubrick è stato candidato per 13 volte al Premio Oscar, vincendolo solo nel 1969 per gli effetti speciali di 2001: Odissea nello spazio. Oh tempora o mores.

Quello che gli appassionati sanno ma non dicono è che “Golden Globe” e “Oscar” sono sinonimi di cinema commerciale che sembra cinema d’arte. Ebbene, La grande bellezza è esattamente un film commerciale che sembra un film d’arte. È un film progettato a tavolino per mietere premi al di fuori dell’Italia, specialmente dalle parti di Hollywood. In quel film c’è infatti tutto quello che serve per piacere al pubblico e alla critica internazionale, specialmente alla critica “liberal” statunitense: uno stile manieristico ed eclettico che assorbe spunti da Federico Fellini e da Terrence Malick, la caricatura pittoresca e grottesca dell’Italia e degli italiani e infine un anticlericalismo, anzi anticattolicesimo, becero soffuso di anti-italianismo.

A mio parere, per quanto possa contare il mio parere, Sorrentino è un manierista che nasconde la debolezza della sua ispirazione sotto un manto barocco (nel senso di Giovan Battista Marino, non di Gian Lorenzo Bernini) di retorica registica. Subito dopo i titoli di testa appare una scritta: «Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario: ecco la sua forza, va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose: è tutto inventato. Celine». Ostentando questa solenne citazione letteraria, il regista confessa di volersi misurare con i più grandi abitatori del Parnaso letterario e cinematografico. E in effetti, in questo film Sorrentino affronta i temi più elevati: la bellezza, l’amore, la morte, la giovinezza, la vecchiaia, la vanità mondana, l’ambizione… Ma più che affrontarli, Sorrentino li enuncia. Di bellezza, amore, morte e tutto il resto grondano infatti i monologhi declamati da Servillo, troppo lunghi per essere cinematografici e troppo sciatti per essere letterari. Nel complesso il film appare congestionato da troppe parole, che insieme formano un chiacchiericcio pseudo-letterario sotto cui si sedimentano le immagini non troppo belle di un film fallito.

Sorrentino è troppo sgamato per non sapere che, per piacere all’estero, un regista italiano deve fare riferimento a Federico Fellini, di cui oltretutto nel 2013 cadeva il ventennale della morte. Dice ad esempio Richard Heuze, corrispondente di “Le Figaro” in Italia da più di trenta anni: «Se vuoi essere apprezzato devi fare pensare a Fellini e ad altri grandi. Per questo sono sicuro che La grande bellezza di Sorrentino avrà un grande successo nel mio paese» (F. L. Zanardi, Cosa aspettate a fare un film su Berlusconi?, “Il venerdì”, 5 luglio 2013). In sostanza, i critici stranieri ritengono che gli italiani di oggi siano incapaci di creare qualcosa di nuovo.

E nel film di Sorrentino di riferimenti a Fellini ce ne sono fin troppi. Potrebbe essere addirittura letto come una enciclopedia di citazioni felliniane. Inutile dire Jep Gambardella è, in maniera fin troppo esplicita, una sorta di reincarnazione cinematografica dei personaggi interpretati da Marcello Mastroianni in La dolce vitaOtto e mezzo e pure in La città delle donne.

E veniamo all’anti-clericalismo becero di Sorrentino. Sorrentino da una parte cerca di fare il regista internazionale e dall’altra cerca di dare al pubblico internazionale quello che il pubblico internazionale vuole dai registi italiani di oggi: cartoline folkloristiche dell’Italia dipinte in stile Fellini. Ma soprattutto, Sorrentino non si dimentica mai di mettere nei suoi film i luoghi comuni folkloristici sull’Italia che tanto piacciono al pubblico cui cerca disperatamente di piacere. Nel Divo (Ita/Fra, Colore, 110’, 2008) Sorrentino rappresenta l’Italia così come se la immaginano gli stranieri, specialmente dopo lo scandalo del bunga bunga: marcia, corrotta, mafiosa e governata da mafiosi. Mancava solo la pizza e il mandolino. E l’anticlericalismo vuoto di La grande bellezza è esattamente un luogo comune sull’Italia, che per gli anglosassoni è una nazione marcia, corrotta e mafiosa a causa del cattolicesimo.

I personaggi del cardinal Bellucci (interpretato da Roberto Herlitzka), della “santa” (interpretata da Giusi Merli) e l’assistente della santa (interpretato da Dario Cantarelli) sono peggio che imbarazzanti. Il cardinale Bellucci sembra meno interessato a Dio e al diavolo che all’alta cucina. Egli si interessa in particolare alla cottura delle carni, che è una allusione facile, alla portata degli spettatori meno avveduti, ai “piaceri della carne”. E a proposito di piaceri della carne, la scena in cui una suora di clausura, nel corso di un incontro con la santa, lancia un sorriso smagliante ad un bel giovane di colore, membro della delegazione di una tribù africana, ha la stessa intensità satirica di una barzelletta che non fa ridere. Il messaggio è chiaro e gradito al pubblico internazionale ex protestante, specialmente anglosassone, cui Sorrentino cerca disperatamente di piacere: i religiosi sono dei repressi nevrotici. Quando Gambardella domanda al cardinale: «Eminenza, è vero che lei da giovane faceva l’esorcista?», il volto del cardinale sprofonda in un chiaroscuro tenebroso. Il messaggio è chiaro e gradito al pubblico di cui sopra: vero diavolo è chi fa credere al popolo che il diavolo esiste. Fanno pendant al vescovo-cuoco le tante figure di religiosi, e specialmente religiose, che vedi aggirarsi per la Roma di Sorrentino con sguardi derisori e infidi. Il messaggio è chiaro e gradito eccetera: la religione organizzata è un inganno.

Quando appare la “santa”, una sorta di caricatura di madre Teresa di Calcutta, il film sprofonda nella farsa. Il suo volto è devastato da una infinità di rughe, la sua bocca si apre solo per mostrare gengive quasi completamente nude, dai suoi occhi trasuda una demenza senile ad uno stadio molto avanzato. D’altra parte, la giovane suora che guarda alla santa con mistico e sofferto entusiasmo, sgranando occhi cerchiati per troppe veglie di preghiera, non appare tanto più lucida. Il messaggio è chiaro e gradito eccetera: per avere fede, speranza e carità bisogna essere irrazionali.

Fa da contraltare alla sepolcrale santa e alla giovane suora esaltata la ragazzina vestita da suora per la prima comunione che sorride malinconicamente a Gambardella tenendo le mani sulle sbarre del cancello di un istituto di suore, quasi fossero sbarre di una prigione. Insieme agli altri ragazzini, ride alla vista di un cagnolino che tenta di liberarsi da un guinzaglio elastico. E qui i simbolismi telefonati si sprecano: la ragazzina simboleggia l’innocenza e il candore del bambino e dell’uomo primigenio (il “buon selvaggio” di Rousseau), l’istituto in cui sembra prigioniera simboleggia la civiltà, il cagnolino simboleggia la natura da cui l’uomo civile si separa, corrompendosi1. La civiltà comprende sia la religione organizzata, che nell’ottica di Rousseau reprimerebbe i desideri e gli istinti, sia la cultura e l’economia, che nell’ottica di Rousseau creerebbero falsi bisogni e nutrirebbero vane ambizioni.

Ma torniamo alla santa. Sebbene faccia fatica a reggersi in piedi, la santa cura i malati con energica sollecitudine nella sua missione in Africa ed inoltre vuole salire in ginocchio la Scala Santa, mentre Gambardella, che in piedi ci sta benissimo, non vuole salirla perché non vuole rovinarsi le ginocchia. Il messaggio è chiaro e gradito al pubblico internazionale ex protestante, specialmente anglosassone eccetera: la fede chiede sacrifici inutili e controproducenti, è più saggio divertirsi. Infine la santa, che in Africa vive in povertà, è costretta ad alloggiare in un hotel di super lusso a Trinità dei Monti.  Il messaggio è chiaro, gradito al pubblico di cui sopra e pure ai luterani del Sedicesimo secolo: la Chiesa predica bene la povertà ma poi razzola male nelle ricchezze estorte ai poveri.

Insomma, Sorrentino è tutto fuorché un “maestro” del cinema. Non ha nulla da insegnare a nessuno, a parte questo: che a sparare contro la Chiesa e contro l’Italia – nazione che ha il torto di essere ancora troppo cattolica – qualche premio te lo porti a casa.

  1. Il bersaglio polemico di Jean-Jacques Rousseau è il dogma del peccato originale. La sua celebre tesi è che l’uomo nascerebbe buono e sarebbe reso cattivo dalla società. Scrive ad esempio in una lettera a Malesherbes: «[…] l’homme est bon naturellement et… c’est par ces institutions seules que les hommes deviennent méchants» (Roussea à Malesherbes, 12 janvier 1762, C. G., n° 1249, t. VII, p. 51).

Navigazione ad articolo singolo

10 pensieri su “Paolo Sorrentino vince il Golden Globe facendo la caricatura della Chiesa e dell’Italia

  1. D’accordissimo con te, Giovanna. Analisi lucida e tagliente. Ho appena scoperto questo tuo blog e lo sto divorando 🙂

  2. http://www.lanuovabq.it/it/articoli-oscar-siamo-fieri-di-parlar-male-di-noi-stessi-8585.htm

    Oscar. Siamo fieri di parlar male di noi stessi!
    di Rino Cammilleri
    04-03-2014 AA+A++
    Toni Servillo ne La Grande Bellezza
    Share on twitterShare on facebook
    Stampa Invia ad un amico Scarica il PDF RSS
    A me, come a tutti i cittadini italiani medi, il fatto che il regista Sorrentino abbia preso l’Oscar non porta in tasca nulla. Non aumenta il mio benessere nemmeno se vince la nazionale di calcio, o uno sciatore italiano d’anagrafe, ma dal nome invariabilmente tedesco, strappa un trofeo. Noi italiani siamo bravissimi a emigrare (e solo all’estero un italiano capace può emergere) o a eccellere in cose che l’italiano medio può vedere solo col binocolo: l’alta moda e la Ferrari. Gli stereotipi italici nella mente degli stranieri – rassegniamoci – sono questi: pizza & mafia. E ve lo dice uno che ha pubblicato un Doveroso elogio degli italiani (Rizzoli, 2001), libro di cui più invecchia e più si pente.

    E veniamo agli Oscar. Mentre facciamo notte per le strade esibendo bandiere dalle auto e strombazzando come matti ubriachi non solo di gioia per il premio vinto, vediamo di ricordarci che l’Oscar è un premio tutto americano che va a film americani. Là l’industria cinematografica non campa di sovvenzioni. Là ogni milione di dollari (privati) speso per un film ne porta dieci dall’estero. Gli americani, staccatisi dall’Inghilterra nel 1776 per questioni di soldi, sono maestri universali nel farli, i soldi, e non per niente gli Usa sono stati definiti «una società per azioni armata». Anche la parola «Oscar» reca accanto il simbolino «c». Sta per «copyright» e significa che se la usi impropriamente finisci in tribunale e paghi. Dunque, Festa del Cinema, sì, ma americano.

    Ora, poiché a qualcuno non è parso giusto che la vastissima periferia dell’impero stia solo a guardare gli scintillii di Los Angeles, ecco una briciola: un (1) film «straniero» può aggiudicarsi un cascame della Notte delle Stelle. Qualche decennio fa alla Rai venne in mente il solito musicarello tipo «Canzonissima», che agli italiani piaceva tanto, ed escogitò la gara di canzonette «Napoli contro tutti», nella quale vinceva sempre Napoli. Ebbene, l’Oscar è «Hollywood contro tutti» e ai film americani vanno premi alla regia, alla sceneggiatura, al plot, al miglior attore, al migliore non protagonista, alla migliore musica, agli effetti speciali, alla canzone, ai costumi, alle scenografie… ho dimenticato qualcosa? Al resto del mondo una sola statuetta, e basta. Corretto: ognuno a casa sua fa quel che gli pare, la giuria è americana, no?

    Ma agli americani interessa solo vedere al cinema quanto sono superiori loro e quanto inferiori gli altri. Così, per esempio, l’Oscar di miglior film straniero è andato a un film indiano che mostrava quanto fa schifo l’India o a un film tedesco che mostrava quanto faceva schifo la Ddr. A mostrare quanto faceva pena l’Italia pensavano Fellini o De Sica, rispettivamente con La dolce vita e La ciociara. In tempi più vicini a noi i registi italiani si sono fatti furbi e hanno capito che, per essere presi in considerazione dagli americani, dovevano mettersi nella loro testa. Nella quale c’è l’Italietta neorealista (Nuovo Cinema Paradiso), l’Italietta di militari imbelli e buoni solo se antifascisti (Mediterraneo), la sempreverde Shoà (La vita è bella). Dopo quest’ultimo, Benigni si chiese cos’altro potesse piacere agli americani, visto che alla mafia pensavano già Scorsese e Coppola e sulla pizza c’era poco da scervellarsi. L’opera lirica? Non è roba da film. I classici, allora. Ma l’unico classico italiano noto agli americani era Pinocchio, tant’è che ci avevano già messo mano Walt Disney e, con ben altri mezzi e inventiva, Spielberg (A.I. Intelligenza Artificiale). Infatti, il Pinocchio di Benigni fu un flop, pure trattato con sufficienza dalla stampa americana (cito: «…pensavamo che Pinocchio fosse un bambino, non un quarantenne stempiato…»). Benigni, com’è noto, si dirottò su Dante, del quale, però, gli americani nulla sanno e, anche a volerci fare un film, i mezzi adeguati li hanno solo loro.

    Perciò non rimaneva che tornare ai vecchi santi e mostrare agli americani la solita Italietta che fa la solita pena, anche se aggiornata. Così, La grande bellezza è quella di Roma, o meglio del suo passato monumentale, popolata purtroppo da italiani che stanno ai greci di oggi come questi stanno all’Atene di Pericle. Vabbe’, direte voi, un Oscar è sempre meglio di niente. Concordiamo e nulla intendiamo togliere al film di Sorrentino che, oltretutto, ha fatto incetta di altri premi internazionali. Ma non ci si parli, per cortesia, di orgoglio nazionale. Gli americani, per esempio, hanno, come romanzi «nazionali», Via col vento e Moby Dick : con l’uno hanno pacificato la loro guerra civile, rendendo il doveroso omaggio ai vinti e ricordando ai posteri che erano americani anche loro; con l’altro, hanno espresso un tema realmente cosmico, la lotta del Bene contro il Male. Il nostro romanzo «nazionale» è, invece, I promessi sposi, storia di poveracci che riescono a cavarsela solo grazie alla Provvidenza, ed è tutto dire. E il romanzo sulla nostra, di guerra civile, è Il gattopardo, rassegnato omaggio al trasformismo, Franza o Spagna purché se magna. La nostra seconda guerra civile (perché questo sventurato Paese ne ha avute ben due) non si può nemmeno romanzare, sennò finisce a scontri di piazza.

    Il film di Sorrentino in effetti dovrebbe essere mostrato non tanto agli americani, i quali sono già informati dai turisti, bensì nelle scuole italiane e con questo sottotitolo: «Grande passato, penoso presente, nessun futuro. Guaglio’, jatevènne». Dalla Roma di Augusto a quella di Ignazio Marino. Già: basta spostarsi nella confinante Svizzera per trovare un popolo che sa almeno scegliersi gli amministratori. Noi non sappiamo fare nemmeno quello e, a ogni tornata elettorale, ci ritroviamo invariabilmente peggio di prima. L’ultimo politico italiano con gli attributi è stato Togliatti. Ed è tutto dire.

  3. Ci disegnano così (Massimo Gramellini).
    04/03/2014 di triskel182
    Ma ti pare possibile, sospirava al telefono un amico dopo l’Oscar a «La Grande Bellezza», che per gli altri noi siamo sempre e soltanto la nostalgia del passato, la decadenza infinita, i monumenti che cadono, i mosaici che si scrostano, l’antica Roma e la Roma dei papi, entrambe manipolate nel ricordo e inscatolate dagli stranieri dentro una sequela di luoghi comuni? Ti pare possibile che di un’Italia senza gladiatori, pizzaioli, pittori, mandolinisti, tenori, sarti, ruffiani, avvelenatori rinascimentali e playboy della mutua non interessi niente a nessuno? Ti rassicura questo rinchiuderci in un eterno cliché per compiacere i pregiudizi degli altri nei nostri confronti?

    A tutte e tre le domande di quell’italiano riluttante ho risposto con un semplice monosillabo. Sì. L’autorevolezza in certi ruoli non si improvvisa. Noi per gli altri siamo ciò che venticinque secoli di storia hanno stabilito che fossimo: depositari distratti della grande bellezza e custodi approssimativi della memoria universale. Quando ci riusciamo, anche costruttori di benessere. Anni fa, alla delegazione tricolore che durante la visita a un importante organismo internazionale si lamentava perché nella struttura lavoravano dirigenti di ogni nazionalità tranne che della nostra, il direttore generale replicò sorpreso: «Vi sbagliate. Agli italiani abbiamo affidato un settore assolutamente cruciale: il catering».

    Da La Stampa del 04/03/2014.

  4. Video assolutamente imperdibile, semplicemente geniale: Fantozzi commenta la Grande bellezza.

  5. Ciao reginadigiove.

    Ho trovato questa recensione molto stimolante. Ne stiamo parlando anche su Freedonia, e ho invitato gli utenti a visionare il tuo pezzo.

Scrivi una risposta a Reginadigiove Cancella risposta